In un recente intervento sul giornale tedesco “Süddeutsche Zeitung” il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier (politico di spicco della SPD già consigliere di Gerhard Schröder e già ministro degli esteri tra il 2005 e il 2009 con la prima große Koalition guidata dalla Merkel) ha dichiarato che “la Germania è troppo importante per solo commentare la politica globale” invitando così il proprio paese a “una politica estera più attiva”. Come è facile immaginare tale intervista, arrivata in un momento in cui sia il presidente della Repubblica tedesca Joachim Gauck sia il ministro della difesa Ursula von der Leyen hanno espresso opinioni del tutto simili, ha aperto diverse polemiche riguardo sia alla storia tedesca sia alla necessità di sostenere il peso economico di interventi all’estero. Lasciando da parte tali polemiche, la riflessione di Steinmeier conduce a tre importanti nodi che ne costituiscono la base teorica.

1. Il primo riguarda il contesto globale che stiamo (“stiamo” perché questi problemi non toccano solo la Germania) affrontando e l’attenzione di Steinmeier si sofferma in particolare sui grandi conflitti che si stanno sviluppando in modo pericoloso ai confini dell’Europa. Tale situazione sembra non essere presa troppo seriamente nelle diverse capitali e tanto meno a Bruxelles, ma se diamo uno sguardo intorno a noi c’è da spaventarsi e non poco. Senza pensare alle proteste di piazza a Kiev e in Ucraina che stanno andando avanti da diverse settimane e che hanno già provocato alcuni morti, rischiando di condurre il paese verso la guerra civile, possiamo soffermarci al bacino del Mediterraneo e al Medio Oriente per avere un’idea più chiara di quali pericoli ci possa riservare la politica internazionale. La Libia è un paese spaccato in due, con un governo che controlla solo una minima parte del territorio che, invece, è conteso da vari gruppi irregolari. L’Egitto è in una situazione caotica e violenta dall’inizio della cosiddetta “primavera araba” e non mancano infiltrazioni jihadiste, come dimostra il recente video di un gruppo che, grazie a missili Stinger trafugati dalla Libia, ha abbattuto sul Sinai un elicottero. Passando dall’altra parte del canale di Suez ci si trova di fronte all’eterno problema di Israele e dei palestinesi che oggi si inserisce in un quadro ancora più ampio. L’Iraq si sta lentamente (ma forse inesorabilmente) sgretolando a causa di problemi interni, di lotte di potere e delle conseguenze dell’intervento americano. Inoltre il Kurdistan, ufficialmente una regione irachena, gode sempre di un’enorme autonomia che difende a spada tratta. La Siria è ormai in guerra civile da tre anni e malgrado Ginevra II non si vede una soluzione al conflitto che influisce sulla stessa stabilità irachena e su quella del Libano dove ormai quotidianamente o quasi si registrano attentati.

 

Tale situazione di instabilità deve forzatamente portare a riflettere su ciò che sta succedendo ai confini dell’Europa: non fosse altro perché quelle situazioni conflittuali producono profughi che spesso vengono a cercare fortuna in Europa (e in Germania), con tutte le problematiche che ben conosciamo. Ciò però che Steinmeier vuole proporre non è, sia chiaro, una politica militarista di intervento, ma una politica estera più attiva e pronta. Il ministro infatti, pur affermando che le operazioni militari (non utilizza il termine guerra come d’altronde avviene ormai anche nel dibattito pubblico italiano) sono solo l’ultima ratio, afferma tuttavia che non si può bandirle dalla realtà politica. In questo quadro inserisce l’intervento tedesco per la stabilizzazione del Mali, così come la responsabilità sulle armi chimiche siriane o le decisioni sull’arsenale libico.

L’obiettivo di Steinmeier non è tanto quello di portare la Germania verso una politica di potenza, quanto, da un lato, quello di far valere anche nella politica internazionale e sui vari scacchieri di conflitto il peso politico ed economico tedesco; dall’altro, quello di affrontare i problemi prima che diventino troppo gravi e si complichino irrimediabilmente.

2. Una seconda riflessione che emerge dalla intervista di Steinmeier è relativa alla responsabilità che i paesi europei hanno nei confronti dei conflitti appena ricordati. Infatti, con il progressivo allontanamento degli Stati Uniti dal Medio Oriente e dall’Europa, quest’ultima deve acquisire un ruolo diverso da quello che per tutto il periodo della Guerra fredda si era comodamente ritagliato. Non va inoltre dimenticato che i conflitti attuali sono peculiari e molto diversi dalle classiche guerre a cui si pensava fino a un paio di decenni fa. Tutta la diplomazia occidentale e le grandi organizzazioni internazionali (Onu, Eu e Nato tanto per citare i più ovvi e vicini a noi) sono basati sul concetto di Stato moderno costruito sul nesso individuato da Weber, ovvero lo stato “avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima”. Nel mondo contemporaneo, specie fuori dalla cultura politica occidentale, lo Stato non riesce più a contenere la violenza e a gestirla. Ne consegue che gli attori della violenza sono oggi molto diversi rispetto al passato: essi non sono stati, non agiscono come tali e non giocano secondo le loro regole.

Oggi e specie nelle aree vicine all’Europa le minacce alla sicurezza arrivano anche, se non solo, da attori privati della violenza, ovvero gruppi armati che agiscono senza seguire le regole della diplomazia classica e senza badare ai confini degli stati. Non va inoltre dimenticato a questo proposito che le aree in cui questi gruppi operano sono caratterizzate da confini che in realtà sono semplici e spesso inadeguate spartizioni occidentali derivanti dal retaggio coloniale. In un mondo in cui i confini dell’Europa sono sempre più vicini a conflitti pericolosi e si hanno di fronte avversari molto mobili e immuni ai tradizionali strumenti di coercizione diplomatica, è necessario guardare alla realtà con un’ottica diversa e affrontare i problemi in modo diretto.

La terza riflessione che emerge dall’intervista a Steinmeier è di carattere più generale. Essa non rappresenta solo l’idea del ministro ma un’impostazione politica più ampia che sembra ben radicata all’interno del mondo politico tedesco. Infatti, negli stessi giorni il presidente della Repubblica Joachim Gauck (co-fondadore di Neue Forum, ovvero il movimento pacifista e per i diritti umani che guidò le proteste contro la dittatura comunista della SED nell’allora DDR) dichiarava la Germania un paese che ricerca sempre la soluzione politica e diplomatica, ma, e qui sta la novità, se le circostanze lo richiedono l’impiego della Bundeswehr diventa una possibilità. Il presidente affermava che “la repubblica tedesca si dovrebbe adoperare come i suoi stretti alleati prima, in modo più deciso e sostanziale” sulla scena internazionale. Esortava così “i tedeschi a dedicarsi al mondo”. Anche il ministro della difesa Ursula von der Leyen (CDU e primo ministro donna alla difesa) si è espressa in modo analogo sostenendo che la Germania ha delle responsabilità e che non si può guardare altrove quando omicidio e stupro sono all’ordine del giorno: “per un paese come la Germania, l’indifferenza non è un’opzione né dal punto di vista della politica di sicurezza ne da quello umanitario”.

3. Dopo la fine della Guerra Fredda, La Germania ha comunque partecipato a operazioni all’estero tra cui la Somalia (anche con mezzi pesanti), il Kosovo (con l’impiego di alcuni mezzi della Luftwaffe) e l’Afghanistan (dove è il terzo contingente per numero di uomini impiegati e ha già sofferto 54 perdite). Questo dato da solo mostra come negli ultimi anni l’intervento tedesco sia diventato più presente sul terreno, tanto da mettere a repentaglio le vite dei soldati come evidentemente non era stato fatto negli anni precedenti. Infine, bisogna ricordare l’operazione in Mali dove la Bundeswehr ha dislocato prima 180 soldati che poi nei giorni scorsi il parlamento tedesco ha aumentato a 250.

Queste dichiarazioni non sono una rottura rispetto al passato, semmai sono un rafforzamento e un’implementazione di una politica estera in atto da tempo. Piuttosto, questa Germania attiva in politica estera mette in luce due aspetti. Da un lato, il profilo interno di un dibattito pubblico più maturo rispetto a quello italiano, anche se rimane forte la componente critica verso l'impiego delle forze armate, e di un sistema che attraverso diversi centri di studio e ricerca porta avanti una visione strategica e una conoscenza del fenomeno bellico, che in Italia purtroppo latita. Dall’altro lato, va detto che se Berlino ente di poter agire più liberamente e in prima persona sulla scena internazionale è perché in sede comunitaria non esiste una politica estera comune e uno strumento militare comune in grado di affrontare quegli stessi problemi.