1. Faccio fatica a capire che cosa davvero sia l'abolizione del valore legale del titolo di studio nel settore privato. Nelle  imprese private industriali e finanziarie in cui ho lavorato – non ho alcuna esperienza accademica, né di settore pubblico – nessuno ha mai dato una vera importanza al titolo di studio. Ovviamente, se si assume un ingegnere, questo deve essere tale, ossia laureato in ingegneria.

Per quale ragione mai, almeno nella mia esperienza del settore privato, si accredita così poca importanza al titolo di studio, salvo che in sede di assunzione? La spiegazione migliore che riesco a dare è che la realtà economica è magmatica e quel che davvero conta è l'intelligenza duttile, non quella formale. L'intelligenza capace di applicarsi alle situazioni più disparate. La formazione universitaria è condizione necessaria, ma non sufficiente per applicarsi al magmatico. Dunque non basta avere il titolo giusto ottenuto nell'università giusta.

Alla fine, le persone che hanno una buona base by the book fanno carriera solo se poi imparano ad agire streetwise. Quando ho avuto la responsabilità di assumere chiedevo di passaggio quale scuola superiore avessero frequentato (sono ancora a favore dei licei pubblici) e, soprattutto, quale fosse il titolo della tesi di laurea (se originale, oppure se banale, o, peggio, alla moda). Non si può non avere un certificato che mostri che uno può fare l'ingegnere. Mentre non si certifica se uno è economista. Si può solo sapere se ha studiato e come e con chi. Non si rischiano, infatti, cause per danni se un economista si sbaglia. Inoltre, l'economia – dato un corpo robusto di modelli – è essenzialmente interpretazione dello Spirito del Tempo.

2. Passando alla discussione su cui non ho esperienza, farei queste considerazioni. Si abbia un certo numero di università tutte all'incirca dello stesso livello – come in Germania. Si abbia un certo numero di università di cui alcune di altissimo livello e altre di modesto livello – come negli Stati Uniti. La media tedesca non ha varianza, mentre la media statunitense ha una varianza molto alta. Le due medie possono però essere eguali. Ricerca di una risposta pratica: all'economia di un paese interessa avere un gran numero di laureati di buon livello, oppure un numero modesto di laureati di gran livello e un gran numero di laureati di modesto livello? Ignoro la risposta e teorica e empirica, ma propenderei a dire che la prima mi sembra più verosimile.

Dar via libera ad alcune università di gran livello, vuol dire pagare molto di più i professori star, che sarebbero retribuiti di più grazie alle rette maggiori (lasciamo per ora in sospeso come i meno abbienti le possano pagare: se con le borse di studio, se con i prestiti d'onore, sul punto torniamo alla fine della nota). Il vantaggio per le star è evidente. Qual è il vantaggio per gli studenti?

Ho dei dubbi che ci sia un gran vantaggio scientifico. Per esempio, se uno trova l'economista Paul Krugman una vera star, può benissimo leggerlo sul New York Times, sul suo blog, e sui suoi libri. Non si capisce che cosa guadagnerebbe in più (tenendo conto dei costi) se lo ascoltasse in un'aula a Princeton. Il vero vantaggio che uno studente avrebbe è nell'indirizzo che può ricevere da un professore davvero bravo nella didattica. Forse c'è anche un'altra ragione – meno scientifica e più pratica – per frequentare le grandi università.

Concentrare le star in poche università alimenta l'effetto alone, ossia il neolaureato dirà con orgoglio che ha studiato con i migliori. Questo però non garantisce che lui sia fra i migliori. Garantisce solo che ha seguito le lezioni dei migliori e superato i loro esami. È un segno che si appartiene all'elite. Un alunno di una grande e prestigiosa università potrà far meglio di altri nella carriera universitaria? Non lo so. Potrà far meglio degli altri nell'economia privata? Dipende da quanto è duttile. Qual è allora il risvolto concreto dell'effetto alone della grande università nell'economia privata?

Il direttore dell'informatica e il direttore degli acquisti comprano i mega computer di una sola grande casa statunitense, così come le automobili di poche grandi case tedesche. Nessuno, se questi strumenti andassero male, potrebbe accusarli di aver fatto una scelta sbagliata. Per la stessa ragione e non per altre, il direttore del personale presenterà la propria società ai neo laureati di una grande università e non in una università sconosciuta. In quella sconosciuta magari ci sono dei geni, ma il costo della loro scoperta, se tali poi non si rivelano, è troppo alto per lui. Sarebbe sgridato. Dunque, alla fine, il meccanismo del successo delle grandi università è costruire un prodotto a qualità alta e garantita. Insomma, come una berlina di lusso tedesca.

3. Si vuole l’eguaglianza dei punti di partenza, se si è liberali: la libertà è un valore superiore all'eguaglianza. Si vuole l'eguaglianza dei punti di arrivo, se si è comunisti: l'eguaglianza è un valore superiore alla libertà. Naturalmente c'è chi non vuole nemmeno l'eguaglianza dei punti di partenza, ma questo punto di vista è difficile che passi a meno di dare – di diritto o di fatto – la  facoltà di voto alle elezioni ai soli ottimati. È improbabile tuttavia che una tale posizione riscuota consenso, da quando non si crede più che sia l'oscuro disegno di Dio a distribuire le posizioni di partenza. Quindi dalla Rivoluzione Francese, almeno.

Nel corso degli ultimi anni, all’interno del sistema statunitense l’eguaglianza delle opportunità in termini di punti di partenza scolastici si è sensibilmente ridotta. Dunque in Italia si vuole abolire il valore legale della laurea e dare il via libera al modello scolastico anglosassone in un momento in cui manca la prova empirica che questo non penalizzi i meno abbienti. Sarà difficile che non ne nasca una discussione feroce.