L'approccio dell'ultima Finanziaria La Finanziaria 2007 ha messo mano a una prima riforma delle società a partecipazioni pubbliche. In estrema sintesi, le misure adottate prevedono dismissioni, riorganizzazioni strutturali, riduzioni del numero dei componenti dei consigli di amministrazione e dei loro compensi. Stato, Regioni ed Enti locali sono cioè chiamati a essere soci di capitali più attenti al portafoglio. Si tratta di un buon inizio, ma rischia di essere una misura insufficiente se non sarà seguita da una più ampia riforma che modifichi l'uso che viene fatto delle società pubbliche a livello locale. La situazione dal 90 a oggi
Il prezzo è altissimo: mortificate le competenze imprenditoriali, sterilizzate le energie del mercato, frustrate le velleità di rilancio economico. Inoltre, fatte le debite eccezioni, emergono evidenti effetti distorsivi della concorrenza, nonché servizi cari e di bassa qualità per gli utenti. L'unica speranza per gli imprenditori di non essere «tagliati fuori» è che l'ente pubblico debba fare ricorso alle loro capacità tecniche. Uno di loro sarà scelto con gara per diventare socio, con il rischio di condizionamenti politici nella gestione. Anche questi ultimi spiegano il successo del modello dell'in house e dell'affidamento diretto: si offrono posti di comando e posti di lavoro la cui assegnazione si gioca troppo spesso sul piano della logica del consenso politico. Le società sono troppe, operano solo a livello locale e finiscono con il «provincializzare» il settore. Senza contare che quelle miste (con soci privati) sono numericamente minoritarie (35%). Concorrenza: le riforme mancate
E il Parlamento? Il Governo Prodi ha presentato il 7 luglio dell'anno scorso il disegno di legge Lanzillotta (n. S-772), che prevedeva la regola della scelta del gestore mediante procedure competitive a evidenza pubblica. L'approvazione del Ddl è stata però impedita: la spinta liberalizzatrice ha infatti incontrato dure opposizioni all'interno della stessa maggioranza (Rifondazione comunista). Dopo mesi di tira e molla, alla fine l'ha vinta il classico compromesso all'italiana: a metà maggio, sono rispuntate le vecchie municipalizzate, ricostituendo le quali i Comuni potranno gestire direttamente i servizi pubblici senza ricorrere al mercato. E così il testo approvato dalla commissione Affari costituzionali del Senato il 30 maggio 2007 e che sarà discusso in aula prevede la gestione diretta dei Comuni (in economia o mediante aziende speciali) e quella affidata (parrebbe sempre mediante gara) a società pubbliche e private. Certo, le municipalizzate hanno un vantaggio: non nascondono dietro le forme societarie scelte gestorie di carattere politico e, quindi, fanno emergere con più chiarezza le responsabilità politiche. Ciò non toglie che quando, con procedimento opposto a quello verificatosi negli ultimi anni, pur di non fare le gare i Comuni avranno sostituito le partecipate con le municipalizzate, il cammino verso la concorrenza sarà definitivamente interrotto. Il punto è che il modello della gestione pubblica dei servizi è duro a morire. Lo dimostrano anche altre disposizioni normative. L'art. 13 della legge 248/06, convertendo il decreto Bersani, ha escluso i servizi locali dalle misure dalla liberalizzazione; l'art. 150, decreto legislativo 152/2006 (codice dell'ambiente), conserva il modello del monopolio pubblico nella gestione del servizio idrico integrato; il correttivo al codice dell'ambiente approvato dalla Conferenza unificata il 29 marzo scorso elimina la regola della gara per la gestione dei rifiuti prevista dall'art. 202 del codice medesimo. Il tutto in palese contrasto con le indicazioni comunitarie: per quanto la normativa, la Corte di giustizia e la Commissione delle Comunità europee tendano a valorizzare i partenariati pubblico-privati, in nessun caso ammettono deroghe al principio della libera concorrenza. Concorrenza: ci vuole coraggio |
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