Il monopolio delle ex municipalizzate è oggi saldamente in mano alle società pubbliche, con cui gli enti locali continuano a controllare i servizi pubblici, affidati in house o direttamente alle partecipate. Negli ultimi tempi sembrava che qualcosa stesse cambiando per rianimare il mercato e correggere le anomalie del sistema. Ma il probabile ritorno delle municipalizzate e le altre riforme mancate dimostrano che manca il coraggio.
L'approccio dell'ultima Finanziaria
La Finanziaria 2007 ha messo mano a una prima riforma delle società a partecipazioni pubbliche.
In estrema sintesi, le misure adottate prevedono dismissioni, riorganizzazioni strutturali, riduzioni del numero dei componenti dei consigli di amministrazione e dei loro compensi. Stato, Regioni ed Enti locali sono cioè chiamati a essere soci di capitali più attenti al portafoglio.
Si tratta di un buon inizio, ma rischia di essere una misura insufficiente se non sarà seguita da una più ampia riforma che modifichi l'uso che viene fatto delle società pubbliche a livello locale. 

La situazione dal 90 a oggi
Spesso Comuni e Province gestiscono i servizi pubblici di rilevanza economica (cioè quelli da cui si ricavano profitti) mediante società pubbliche. È una pratica che il legislatore consente a partire dagli anni 90. Dapprima la legge ha in vario modo consentito l'affidamento diretto di questi servizi. Da ultimo, dopo la riforma del 2003 apportata all'art. 113, decreto legislativo 267/2000, ciò è possibile ricorrendo agli istituti giuridici dell'in house providing e dell'affidamento diretto. In pratica:

  • se la società è a partecipazione pubblica totalitaria, essa viene considerata parte integrante dell'organizzazione dell'amministrazione che ne detiene tutte le azioni: pertanto, l'ente può «autogestire» il servizio pubblico in house (cioè avvalendosi della predetta società), senza quindi ricorrere a forme di outsourcing (esternalizzazione) scegliendo sul mercato mediante gara una società privata cui affidare la gestione del servizio;
  • se la società è a capitale misto, cioè a partecipazioni pubblico-private, può essere affidataria diretta del servizio pubblico se il socio privato sia stato scelto mediante gara con procedure ad evidenza pubblica.
In tutti e due i casi, si finisce in sostanza per assistere allo stesso fenomeno: il ritorno delle vecchie posizioni di monopolio. Anziché «aprire» alle imprese ambiti di mercato assai proficui (si pensi ai servizi a rete, alla raccolta e smaltimento dei rifiuti, alla gestione dei parcheggi...), di fatto le società pubbliche hanno sostituito le municipalizzate e le aziende speciali.
Il prezzo è altissimo: mortificate le competenze imprenditoriali, sterilizzate le energie del mercato, frustrate le velleità di rilancio economico. Inoltre, fatte le debite eccezioni, emergono evidenti effetti distorsivi della concorrenza, nonché servizi cari e di bassa qualità per gli utenti.
L'unica speranza per gli imprenditori di non essere «tagliati fuori» è che l'ente pubblico debba fare ricorso alle loro capacità tecniche. Uno di loro sarà scelto con gara per diventare socio, con il rischio di condizionamenti politici nella gestione.
Anche questi ultimi spiegano il successo del modello dell'in house e dell'affidamento diretto: si offrono posti di comando e posti di lavoro la cui assegnazione si gioca troppo spesso sul piano della logica del consenso politico. Le società sono troppe, operano solo a livello locale e finiscono con il «provincializzare» il settore. Senza contare che quelle miste (con soci privati) sono numericamente minoritarie (35%). 

Concorrenza: le riforme mancate
Questo stato di cose deve essere cambiato. Non si contano più i richiami al rispetto della concorrenza da parte della Corte di giustizia delle Comunità europee, cui fa eco, soprattutto negli ultimi tempi, la nostra giurisprudenza amministrativa.
Recentemente, il Consiglio di Stato ha affermato nel parere n. 456/2007 che l'affidamento diretto dei servizi pubblici locali alle società miste è possibile a patto che:

  • il privato sia un socio industriale o operativo (e dunque con ruolo non esclusivamente finanziario);
  • venga rinnovata la gara per la scelta del socio privato alla scadenza del periodo di affidamento del servizio.
Il senso è chiaro: si vuole evitare che il socio privato sia stabile, ossia che chi vince la prima gara per fare parte della compagine sociale con l'ente pubblico goda per sempre dei «vantaggi derivanti dal rapporto privilegiato stabilito con il partner pubblico».
E il Parlamento?
Il Governo Prodi ha presentato il 7 luglio dell'anno scorso il disegno di legge Lanzillotta (n. S-772), che prevedeva la regola della scelta del gestore mediante procedure competitive a evidenza pubblica. L'approvazione del Ddl è stata però impedita: la spinta liberalizzatrice ha infatti incontrato dure opposizioni all'interno della stessa maggioranza (Rifondazione comunista). Dopo mesi di tira e molla, alla fine l'ha vinta il classico compromesso all'italiana: a metà maggio, sono rispuntate le vecchie municipalizzate, ricostituendo le quali i Comuni potranno gestire direttamente i servizi pubblici senza ricorrere al mercato. E così il testo approvato dalla commissione Affari costituzionali del Senato il 30 maggio 2007 e che sarà discusso in aula prevede la gestione diretta dei Comuni (in economia o mediante aziende speciali) e quella affidata (parrebbe sempre mediante gara) a società pubbliche e private.
Certo, le municipalizzate hanno un vantaggio: non nascondono dietro le forme societarie scelte gestorie di carattere politico e, quindi, fanno emergere con più chiarezza le responsabilità politiche. Ciò non toglie che quando, con procedimento opposto a quello verificatosi negli ultimi anni, pur di non fare le gare i Comuni avranno sostituito le partecipate con le municipalizzate, il cammino verso la concorrenza sarà definitivamente interrotto.
Il punto è che il modello della gestione pubblica dei servizi è duro a morire. Lo dimostrano anche altre disposizioni normative. L'art. 13 della legge 248/06, convertendo il decreto Bersani, ha escluso i servizi locali dalle misure dalla liberalizzazione; l'art. 150, decreto legislativo 152/2006 (codice dell'ambiente), conserva il modello del monopolio pubblico nella gestione del servizio idrico integrato; il correttivo al codice dell'ambiente approvato dalla Conferenza unificata il 29 marzo scorso elimina la regola della gara per la gestione dei rifiuti prevista dall'art. 202 del codice medesimo. Il tutto in palese contrasto con le indicazioni comunitarie: per quanto la normativa, la Corte di giustizia e la Commissione delle Comunità europee tendano a valorizzare i partenariati pubblico-privati, in nessun caso ammettono deroghe al principio della libera concorrenza. 

Concorrenza: ci vuole coraggio
Il legislatore fa di tutto per tenere il settore dei servizi pubblici lontano dalle logiche del mercato. In attesa di notizie più sicure, la paventata reintroduzione delle municipalizzate ad opera del Ddl Lanzillotta rafforza ancor più la convinzione opposta, il cui manifesto potrebbe essere: "gli enti locali ritornino a fare gli enti pubblici, smettendola di fare i (finti) imprenditori".
La concorrenza fa bene sia ai servizi pubblici, aumentando la qualità della loro erogazione a tutto vantaggio dell'utenza, sia all'economia, ampliando gli spazi di investimento, a tutto beneficio della crescita economica. E allora, ferma restando la proprietà pubblica delle reti, se c'è mercato il servizio deve essere affidato con gara, riservando alle amministrazioni pubbliche il fondamentale compito di vigilare e controllare la gestione. Tutti in gara, dunque, comprese le società pubbliche, sia miste che genuinamente in house, la cui sorte dipenderà dal mercato. In caso di vittoria, forti dei loro know-how, delle indiscutibili tradizioni e capacità, continueranno a gestire i servizi. In caso contrario, verrà meno la giustificazione stessa dell'investimento pubblico.