La discussione fra "liberisti" e "statalisti" impazza. I primi sostengono che la crisi in corso è grave ma passeggera, nel senso che ci si trova nel bel mezzo di una interruzione ciclica, curabile con misure monetarie e fiscali appropriate, mentre i secondi pensano che sia terminata un'epoca storica, iniziata trenta anni fa con Margaret Thatcher e con Ronald Reagan, e che bisogna cercare un modello di sviluppo diverso. Se con "liberista" si intende chi crede che il sistema economico lasciato libero di agire trovi un sentiero di crescita migliore di quello che troverebbe con interventi pubblici perpetui, allora "liberisti" sono quasi tutti, anche i "liberalisti".
La scuola "liberista" di Milton Friedman infatti sostiene che gli interventi di natura monetaria alla fine ottengono degli effetti di distorsione invece che di stimolo. La scuola "liberalista" di John Maynard Keynes infatti sostiene che gli interventi di tipo fiscale sono necessari, una volta che gli interventi di natura monetaria non bastino, ma non pensa che debbano essere eterni. Tutti costoro hanno alla base delle proprie teorie la convinzione che la concorrenza sia una buona cosa, da non toccare o da toccare solo quando necessario, non da impedire. "Statalista" è chi crede che lo stato debba pianificare o guidare gli investimenti importanti, lasciando al mercato i servizi. In una battuta, l'Enel sia pubblica, la massaggiatrice privata. "Statalista" è chi crede che il mercato non sia capace di fare gli investimenti giusti e necessari. "Statalista" è quindi chi crede che la pianificazione sia in grado di far crescere il sistema meglio di quanto facciano il sistema dei mercati con qualche cura di politica economica.
Si possono tentare delle dimostrazioni a favore di una tesi o dell'altra. Ma serve a poco. Meglio è ragionare in termini storici. Lo statalismo era al minimo della propria credibilità quando in Gran Bretagna gli scioperi continui, nonché la "monnezza" ovunque, spinsero verso la Thatcher. Oggi la crisi della finanza ha portato ai minimi termini la credibilità del sistema centrato sui mercati. Dunque, come avrebbe detto Georg Wilhelm Friedrich Hegel, è la storia e non la teoria il giudice ultimo ed inappellabile del successo. I distinguo servono e non servono nel campo della maschia battaglia delle idee. Contano più le dimostrazioni sulle evidenze che non quelle sulle finezze. Che poi le evidenze non siano tali, come si capisce quando le cose si studiano decenni dopo, è un altro discorso. Torniamo all'oggi. Negli Stati Uniti lo statalismo non ha seguaci. Sia John MacCain che Barack Obama seguono la scuola liberalista, ossia curiamo il nostro amato ammalato, la libera intrapresa, che ha il febbrone. Con i tassi bassi (politica monetaria) e con il deficit pubblico (politica fiscale). Lo statalismo ha presa in Europa, non nella versione estrema del socialismo, ma nella versione nella fiducia nelle virtù della protezione statale. La protezione statale è un gran cosa se uno è un pilota o uno steward, un dirigente o un operaio delle grandi fabbriche, ma non è una gran cosa per chi è fuori dai gruppi di pressione organizzati, ossia quasi tutti quanti. La protezione statale, nel favorire alcuni, porta i prezzi e la qualità dei loro prodotti o dei loro servizi sopra il prezzo e sotto la qualità che si avrebbe in un sistema di concorrenza. Ergo, se io sono un pilota ho una rendita, ma quando compro una autovettura la pago di più.
Se io produco una autovettura ho una rendita, ma quando viaggio pago di più. Se percepisco che la mia rendita è superiore al costo dei disservizi degli altri privilegiati, allora sono a favore dello statalismo. Quelli che guadagnano dallo statalismo sono razionali, almeno fin tanto che non si fanno i conti anche per tener conto dei figli e dei nipoti. In breve e polemicamente, i produttori forti hanno voce, i consumatori non hanno voce. Sono troppi per potersi organizzare. La conclusione del ragionamento è semplice. Quando per ragioni storiche la legittimità dei sistemi di concorrenza pende al minimo, è facile che i gruppi organizzati prendano il sopravvento. Nessuno può giustificarsi nei termini crudi usati prima, e quindi ha bisogno di una "ideologia". Eccola: lo statalismo è la difesa degli interessi di lungo termine del Paese che i mercati miopi ed avidi non sono stati capaci di gestire.
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