1. Come sono lontani i tempi in cui il movimento conservatore americano e il Partito repubblicano marciavano quasi all’unisono. Impossibile non pensarlo durante queste tormentate primarie, a partire dal risultato del voto del Super Tuesday: Mitt Romney vince ma non trionfa, si afferma ma deve fare i conti con un’area politica più divisa e indisciplinata che mai.
I risultati dell’Ohio confermano la previsione di un successo debole ponendo pesanti ipoteche sulla futura campagna elettorale di Romney. A Cleveland, a Columbus, a Cincinnati, e in generale nei centri urbani, il candidato repubblicano si afferma su Rick Santorum, ma al costo di 870 mila dollari in spot elettorali spesi in una settimana: neanche un sesto della somma impiegata dal contendente, che però tiene bene nella grande provincia e in tutte le contee rurali. Il risultato finale, che vede i due distanziati da appena un punto percentuale, conferma la forza relativa del conservatore religioso Santorum.
In Georgia si è prodotta l’annunciata affermazione di Newt Gingrich, ma è una vittoria di Pirro, che non significa niente in termini nazionali e anzi confina il candidato che voleva essere portabandiera del movimento conservatore nell’angusto recinto del voto territoriale, del vecchio Sud bianco. Per contro, Santorum vince anche nel Tennessee e in Oklahoma e in North Dakota. Mentre la Virginia, che avrebbe potuto rivelarsi un terreno di scontro interessante, vede l’automatico trionfo di Romney, a causa di irregolarità nella presentazione delle liste dei suoi due maggiori contendenti, che ne hanno provocato l’esclusione dal voto: Ron Paul, unico competitore, ottiene comunque una discreta affermazione.
2. La mappa d’America che va disegnandosi, con i successi di Romney anche in Vermont, in Massachusetts, in Idaho e Alaska, rappresenta così un partito repubblicano diviso e frastagliato. Il paradosso, tuttavia, è che se il Grand Old Party non funziona come dovrebbe, anzi è un vero disastro organizzativo, il conservatorismo americano è vivo e vegeto e, come di consueto, assai chiassoso. In questi giorni, in particolare, è accaduto un evento significativo: nel Cato Institute, lo storico think-tank di orientamento libertario nato dall’iniziativa e dai capitali dell’impero Koch, attivo nella lavorazione del petrolio, si è aperta una frattura profonda, che vede da una parte i fratelli Koch, dall’altra i vertici dell’istituto stesso, guidato da Edward Crane. I Koch sono stati pubblicamente accusati di voler piegare il centro di studi alla causa del partito repubblicano, e tra le due parti è in corso una causa legale.
Il Cato Institute era sorto come parte della nuova strategia, sofisticata e ambiziosa, attraverso la quale le politiche pubbliche negli Stati Uniti sono state orientate e dirette a partire dagli anni Settanta in senso opposto al progressismo, fino ad allora egemonico. Il canale privilegiato è stato il mondo dei centri di ricerca e di studio, la produzione di documenti tecnici, la creazione insomma di una sorta di “accademia” fondata su una rete di centri culturali e di dibattito. Il tentativo era di emulare i liberal, che avevano fino allora dominato l’universo delle fondazioni con le prestigiose Brookings Institution e Council on Foreign Relations.
L’opera di irradiamento ha avuto qualcosa di spettacolare: nel 1973, da una donazione del magnate della birra Joseph Coors, nasceva la Heritage Foundation, nel 1977 il Cato, mentre i (fino ad allora) poco incisivi Hudson Institute e American Enterprise Institute ricevevano nuovo vigore. Vi facevano ingresso – con un’influenza crescente – figure non direttamente ascrivibili alla destra tradizionale, a cominciare dai neoconservatori. Anche istituzioni più antiche, come il compassato Aspen Institute e la liberale Freedom House (nata nella temperie della II Guerra Mondiale con la partecipazione, tra gli altri, di Eleanor Roosevelt, non esattamente una figura della destra americana) erano lambite dall’attivismo conservatore.
3. Tutto questo accadeva oltre trent’anni fa. La rottura odierna al vertice del Cato Institute segnala un movimento centrifugo opposto a quello centripeto, unificante, che aveva permesso le vittorie repubblicane di Reagan e di Bush. L’insofferenza nei confronti dei vincoli partitici e personalisti è palpabile.
Contemporaneamente, il Tea Party si è rivelato una cocente delusione per il campo conservatore e per il Partito repubblicano in particolare: isterico e inconcludente, dopo che con la retorica infiammata di alcune sue frange più radicali aveva posto le premesse per episodi gravissimi come l’attentato alla congressista democratica Gabrielle Giffords, quando si è trattato di passare dalla protesta alla proposta non ha espresso un portavoce di rilievo. Anzi, il probabile candidato repubblicano per le presidenziali 2012, Mitt Romney, è quello tra i papabili che più è estraneo al movimento.
Ma le primarie sono tutt’altro che concluse, e le fatiche di Romney appena cominciate.
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