Chiunque passi dal parcheggio dei taxi della Stazione Centrale di Milano di questi tempi noterà sicuramente una serie di striscioni inneggianti alla resistenza contro gli “abusivi”, con cui “non si tratta”. Chi sono gli “abusivi” in questione e perché i taxisti ce l’hanno tanto con loro?
1. Gli abusivi nel mirino dei conducenti di taxi sono le nuove aziende nate sfruttando le possibilità offerte dalle nuove tecnologie e la diffusione capillare degli smartphone. Su tutte, la più celebre è Uber, nata a San Francisco ormai già qualche anno fa, e diffusasi un po’ in tutto il mondo avanzato, inclusa appunto Milano.
Uber e le altre, ciascuna con il proprio modello di business, offrono un servizio di trasporto analogo a quello dei taxi tradizionali, e quindi fanno loro concorrenza. Il problema, però, è che non dispongono della licenza acquistata, spesso a caro prezzo nel passato, dai taxisti tradizionali: Uber si appoggia a titolari di licenze di “noleggio con conducente” (NCC), che però per legge potrebbero soltanto partire dalla rimessa nel momento della chiamata (e tornarvi dopo il servizio), e non sostare o circolare altrove, in luoghi dove sia più facile trovare potenziali clienti o comunque più rapido raggiungerli.
I taxisti lamentano che gli autisti di Uber non rispetterebbero questo vincolo e dunque farebbero loro una concorrenza sleale. Hanno così avviato una serie di iniziative di protesta, che hanno trovato terreno fertile nell’amministrazione comunale di Pisapia. A gennaio è partita un’offensiva di controlli e multe, intensificata ad aprile, dopo che il 20 marzo scorso uno sciopero dei taxi aveva bloccato la città. Ma evidentemente i taxisti non sono ancora soddisfatti, visto che venerdì scorso la vertenza è stata ufficialmente riaperta dalle loro rappresentanze sindacali, che hanno organizzato un nuovo corteo di auto bianche in lotta contro l’invasore straniero “illegale”.
2. La battaglia si gioca in effetti proprio sul piano del diritto, ed è una perfetta cartina di tornasole per comprendere il grado di libertà economica nel nostro paese, molto più delle sempre discutibili classifiche periodicamente stilate da vari organismi internazionali, dove il ranking può venire influenzato anche da provvedimenti di facciata, quasi o del tutto inoffensivi.
Certamente i taxisti hanno torto quando bloccano le rimesse delle auto di Uber, o peggio ancora quando impediscono loro fisicamente di caricare clienti, come documentato ancora di recente in più di un episodio. Allo stesso modo hanno torto i vigili che, per far contenti i taxisti, il giorno dell’inaugurazione di Uber a Milano ritirarono due libretti di circolazione a due autisti Uber, subito restituiti però per ordine del giudice di pace, essendo i provvedimenti del tutto illegittimi.
Ma evidentemente aveva torto anche il Comune di Milano, che con la determinazione dirigenziale n. 209/2013 aveva cercato di porre dei limiti all’attività delle nuove società come Uber, tutelando la rendita di posizione dei taxisti. La determina era stata in effetti subito impugnata dall’associazione delle imprese di trasporto viaggiatori davanti al Tar Lombardia, che l’aveva sospesa, prima inaudita altera parte, poi confermando la propria decisione anche a seguito di contraddittorio con il Comune, sulla base di una serie di profili di ravvisata illegittimità della normativa nazionale su cui il provvedimento dell’amministrazione meneghina si basava, non ultima la considerazione che « sembra … irrazionale alla luce del progresso della tecnica che, dopo la conclusione di una corsa, il conducente, che immediatamente dopo riceva in via telematica altra richiesta, debba necessariamente fare ritorno alla propria rimessa ovvero a quella che sia stata indicata anziché raggiungere direttamente il cliente in attesa».
Questa netta bocciatura è stata sufficiente a far tornare sui propri passi il Comune, che pure, al momento dell’approvazione della determina impugnata, la presentava entusiasticamente come in grado di «garantire le nuove tecnologie e il rispetto delle regole». Ma prima che si arrivasse a sentenza nel procedimento davanti a Tar Lombardia, prevedendo un esito negativo, il Comune ha preferito far cessare immediatamente gli effetti della determina in questione, approvando a tale scopo una nuova determinazione, la n. 45 del 21 febbraio 2014.
Là dove gli argomenti dei taxisti meritano un supplemento di riflessione è quando essi lamentano l’incertezza del diritto che li colpisce: indubbiamente, essi hanno fatto degli investimenti anche rilevanti in passato per acquisire una rendita di posizione e una protezione dalla concorrenza. Hanno versato denaro allo Stato, sulla base di un accordo a cui ora lo Stato unilateralmente si sottrae.
La politica, dal canto suo, è tendenzialmente molto attenta a non scontentare una categoria che, grazie alla propria forza lobbistica, è sempre riuscita a sfuggire ai tentativi di liberalizzazione degli ultimi governi, che puntualmente li hanno esentati dalle pur timide ondate che hanno interessato altre categorie professionali. Dopo che i taxisti erano stati decisivi nell’elezione di Alemanno a sindaco di Roma nel 2008, nessuna forza politica ha più voluto inimicarseli.
Là dove la politica sta ferma, però, sono l’evoluzione tecnologica e l’inventiva di alcuni imprenditori a trovare comunque nuove vie per superare i limiti imposti dal contingentamento delle licenze. Uber e le sue sorelle rappresentano in effetti il nuovo che procede apparentemente implacabile e travolge piccole e grandi rendite consolidate da anni. Sembra il caso paradigmatico della globalizzazione che insidia i titolari di quelle rendite, senza però che i consumatori percepiscano i vantaggi derivanti dalla nuova opportunità e si coalizzino per tutelare i propri interessi.
Da questo punto di vista, l’esito del procedimento davanti al Tar Lombardia è per una volta un’eccezione italiana allo scenario che si è registrato in molti altri paesi dove Uber si è insediato. In effetti, le resistenze a metà tra diritto e uso della forza sono state un dato comune in molti di questi paesi, e le autorità pubbliche straniere sembrano aver agito molto spesso esattamente come il Comune di Milano, e sino ad ora non sempre vi è stato un giudice che ha difeso le ragioni della libertà di iniziativa economica e i diritti dei consumatori.
Non c’è stato un giudice a Berlino, letteralmente, nel senso che meno di un mese fa Uber si è vista imporre un divieto temporaneo di fornire i propri servizi di taxi tramite smartphone dalla corte distrettuale del Land della capitale tedesca. Similmente, la corte commerciale di Bruxelles ha vietato a Uber di offrire il proprio servizio di corse collettive Uberpop nella città sede delle istituzioni UE, e ha comminato una multa di 10.000 euro per ogni violazione.
A Londra, l’associazione dei taxisti minaccia misure analoghe a quelle adottate dai loro colleghi di Milano, e sta cercando di fare pressione sull’autorità dei trasporti perché ostacoli le attività di Uber, ma sinora l’autorità ha preso tempo. Restrizioni sono invece state adottate tra le altre a Sydney, a Shanghai, in diverse città degli Usa e a Parigi. Qui il governo aveva tentato di imporre alle compagnie private come Uber di attendere 15 minuti prima di poter accettare una chiamata, ma il Consiglio Costituzionale aveva dichiarato incostituzionale la misura. Nonostante qui per ora il rimedio giurisdizionale abbia funzionato, la lobby dei taxisti è tornata alla carica e il governo ha riproposto un divieto di utilizzare app basate sul GPS da parte di compagnie private di trasporto.
3. Se in altre metropoli mondiali l’interesse per i consumatori derivante da un possibile aumento della concorrenza consiste prima di tutto nella discesa dei prezzi, a Milano e in Italia si aggiunge la questione dell’insufficienza dell’offerta in molti momenti in cui la domanda aumenta: è notorio come uno sciopero dei mezzi pubblici o spesso anche solo una pioggia insistente siano circostanze in grado di rendere molto difficile il reperimento di un taxi nel nostro paese. Uber affronta in modo innovativo questo problema, consentendo ai prezzi di fluttuare costantemente in relazione a domanda e offerta, e così tendenzialmente rendendo molto più improbabile che parte della domanda resti insoddisfatta.
La resistenza dei taxisti assomiglia allora incredibilmente alla celebre petizione dei fabbricanti di candele scritta ironicamente da Bastiat. Così come i produttori di candele chiedevano al governo di coprire il sole, perché faceva loro concorrenza, anche i taxisti vogliono dal governo regole che li tutelino, proteggendoli dalla concorrenza di nuovi entranti la cui emersione nel mercato ha quasi la stessa naturalezza del sole. Si possono dunque immaginare forme di apertura graduale del mercato, per evitare che l’investimento nelle costose licenze fatto dai taxisti vada d’un sol colpo in fumo, ma continuare a isolare i taxi dalla concorrenza non avrebbe molto più senso di quanto ne avrebbe avuto mettere un grosso telone sul sole, per tutelare la quota di mercato dei fabbricanti di candele.
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