Il conflitto aperto tra Trump e la stampa, tradizionalmente celebrata negli Stati Uniti come il “quarto potere”, è un aspetto dirompente di come la transizione tra il vecchio e il nuovo Presidente sia quanto mai disordinata.

La Presidenza Trump è nata sotto cattivi auspici, che caricano l’atmosfera fortemente polarizzata dell’America e la conflittualità che agiterà il panorama politico dei prossimi quattro anni. È una previsione ineluttabile, evidenziata dalla guerra dichiarata dal neo Presidente nei confronti della stampa, per quanto questa sia protetta dal Primo Emendamento della Costituzione che sancisce la sua libertà. Gli uomini del Presidente sono scesi in campo accusando i media di “delegittimare” la Presidenza Trump e ricorrendo ad argomenti ridicoli come quello di far apparire oceanica la partecipazione alla sfilata inaugurale, quando tutta la documentazione disponibile attestava la consistenza di gran lunga inferiore a quella registrata per l’inaugurazione di Barack Obama otto anni fa. Nel tentativo di avallare tale pretesa, i portavoce di Trump caratterizzavano le loro stime come “fatti alternativi”. Questa risibile caratterizzazione è già passata alla storia dell’incipiente quadriennio che si presenta quanto mai turbolento per la democrazia americana e per l’immagine che l’America proietta al mondo.

La pervicacia con la quale il capo dello staff della Casa Bianca, Reince Preibus, accusa la stampa di voler “delegittimare” il neo Presidente è riflessa anche dall’impegno di combattere “tooth and nail” - con i denti e con le unghie, come vuole un’espressione tipicamente americana - gli “attacchi” dei media. Gli faceva eco, poche ore dopo, lo stesso Presidente Trump che in un discorso al personale della CIA ripeteva le lubriche affermazioni sull’imponenza della folla che assisteva alla parata e non mancava di bollare la stampa come “disonesta”.

Il conflitto che è esploso tra la Casa Bianca e la stampa – tradizionalmente celebrata negli Stati Uniti come il “quarto potere” – è solo un aspetto dirompente del fatto che, lungi dal costituire una transizione normale e ordinata tra amministrazioni, quella da Obama a Trump è una transizione quanto mai disordinata. L’incertezza si è impadronita della capitale in una misura che eccede le esistenti preoccupazioni centrate sulla imprevedibilità di Donald Trump.

Il problema di fondo, che si è immediatamente rivelato in tutta la sua gravità, è che la nuova amministrazione nutre disprezzo per la realtà. Questa presenta aspetti immutabili come il fatto che il trattamento giornalistico delle misure adottate dalla Casa Bianca non può essere eliminato a motivo dell’imprescindibile emendamento costituzionale. In tema di possibili misure punitive contro la stampa, non si può ignorare che Trump abbia accennato ad un possibile inasprimento delle pene per il reato di diffamazione. Del resto, se Trump volesse veramente dar corso ad una tale idea, dovrebbe fare i conti con la magistratura. La copertura dei media ed i commentari politici sono innegabilmente negativi e continueranno ad esserlo in un’atmosfera ideologica quanto mai satura non solo a Washington, ma in tutta la nazione. L’aspetto centrale resta comunque un altro: che è la realtà a tessere la narrativa politica anti-Trump, non i mezzi di comunicazione. Non esiste una realtà alternativa, come i portavoce dell’amministrazione vorrebbero far credere, ma esiste una crisi politica quando gli stessi portavoce fanno leva sull’imperio del populismo per far apparire che la massa degli americani è schierata contro chi mette in dubbio la sua fedeltà alla nuova leadership nazionale.

Obiettivamente, va segnalato che la realtà presente è che l’Amministrazione Trump controlla ormai uno degli apparati di governo più potenti nella storia recente americana in forza del totale controllo repubblicano sul processo legislativo. Dove la battaglia si farà più aspra e decisiva è nell’impiego di quegli strumenti di governo che in tempi moderni forniscono al capo dell’esecutivo ampia latitudine per una politica attivista, i cosiddetti “executive orders”. Questi ordini rendono possibile l’esercizio del potere presidenziale, come ampiamente dimostrato da Barack Obama che trovò necessario ricorrere agli “executive orders” per scavalcare un Congresso che aveva praticamente bloccato l’azione legislativa dell’esecutivo. I risultati dell’azione esecutiva di Obama sono agli atti, ma su gli stessi pende la spada di Damocle di un ripudio da parte del nuovo Presidente, con la stessa rapidità ed efficacia che accompagnarono la loro adozione. Il caso più eclatante è quello dell’accordo nucleare con l’Iran, che venne concluso senza l’approvazione del Congresso ma esclusivamente in virtù dell’autorità presidenziale di porre fine alle sanzioni decretate dal congresso ai danni dell’Iran.

L’incertezza si fa quindi sovrana quando per il neo Presidente sorge il problema di cosa fare dell’accordo con l’Iran che egli ripetutamente ebbe a definire un “disastrous deal” nel corso della campagna elettorale. Se e come, eventualmente, agirà in proposito il Presidente Trump è un grosso punto interrogativo, per il fatto che lo stesso Senatore repubblicano Bob Corker, capo della commissione per le relazioni estere, ha ammesso che stracciare l’accordo con l’Iran equivarrebbe a creare una crisi internazionale. Ma vi è un altro aspetto che contribuisce a conferire una pesante incertezza all’azione politica del nuovo Presidente, la vischiosità della macchina burocratica che complica maledettamente il compito di varare la regolamentazione necessaria per cancellare o modificare i regolamenti esistenti. Non meno rilevante è il dubbio circa la disponibilità del Congresso ad avallare ogni proposta legislativa del Presidente repubblicano per la semplice ragione che la legislazione esistente presenta in molti casi sacche di consenso che una parte non indifferente dei legislatori repubblicani non intende sfidare per comprensibili motivi elettorali. È il caso di Obamacare che Trump e la leadership repubblicana intendono stralciare senza avere un’idea precisa di come farlo evitando di sottrarre a decine di milioni di Americani l’assicurazione medica fornita dall’Affordable Care Act.

Sono molti a chiedersi se l’impiego del tweeting, che Trump ha elevato a canale indispensabile di comunicazione, potrà essere mantenuto e con quali effetti sulla burocrazia e sull’azione legislativa dell’esecutivo. Di fronte alle grandi problematiche della svolta politica a Washington, il ricorso ai social media per attaccare gli avversari non può che approfondire il solco dell’opposizione che si è già ampiamente radicalizzata con l’imponente marcia delle donne nella capitale. Il primo dovere di un Presidente è quello di tutelare il senso di unità nazionale mentre lo sfruttamento partigiano dei social media non può che annullare ogni possibilità di accomodamento con la minoranza democratica al Congresso. Resta aperto il quesito sui tweets di Donald Trump: sono segnali di reali intenzioni politiche o semplicemente chiasso senza sostanza? Se la forza di persuasione del “bully pulpit” – l’autorevole pulpito reso famoso da Teddy Roosevelt – non rientra nella narrativa presidenziale, la conclusione da trarre è che Donald Trump non pensa a costruire alleanze o coalizioni – che Obama tentava disperatamente di erigere - quanto a perseguire iniziative unilaterali, transeunti per natura ed insostenibili a lungo termine. I più realisti tra i commentatori segnalano che il giudizio iniziale della Presidenza Trump deve essere ancorato a quel che fa, e non a quel che dice attraverso i tweet. La scelta dei suoi ministri e dei più stretti collaboratori è di fatto il più importante barometro delle intenzioni politiche del neo presidente, che riflettono l’ortodossia repubblicana molto più che non l’afflato populista che ha contraddistinto la sua campagna elettorale. Donald Trump ha scelto infatti uomini che sono tutt’altro che populisti, ma conservatori di razza che credono nel libero mercato, nell’abolizione dei regolamenti e nella privatizzazione di funzioni governative. La realtà del momento è che Donald Trump si è affacciato alla ribalta nazionale ed internazionale come un politico ben diverso dal populista implacabile sostenuto da un’esile maggioranza di americani. Lungi dal contestare la legittimità della Presidenza Trump, il dilemma che la circonda è piuttosto quello di valutare come Trump si adatterà a governare il Paese in confronto al suo comportamento elettorale. Questa, e solo questa, è l’essenza dell’incertezza che grava sull’America e sul mondo in generale.