1. Il dibattito sull’abolizione del valore legale del titolo di studio pare fatto apposta per generare equivoci. Di primo acchito l’abolizione pare andare contro il senso comune. Non è infatti improbabile ritenere che, in linea di principio, possa essere lo Stato il supremo garante della qualità dell’istruzione e quindi ritiene, intuitivamente, che abolito il valore legale del diploma universitario, e quindi la certificazione statale dei corsi, si apra il classico ‘far west’.

Non è così, ma non vale la pena spiegarlo linearmente, perché si incorre nel muro contro muro delle opposte fazioni. Partiamo invece da un problema concreto, e vediamo che cosa accadrebbe se in Italia fosse abolito il valore legale dei diplomi di laurea. Qual è il problema principale del sistema universitario italiano? Sono due, collegati. Mi sia concesso introdurli con un aneddoto.  

2. Prima di partire per studiare negli Stati Uniti, un professore italiano mi spiegò, in gran confidenza, che l’idea secondo cui il docente universitario è assunto per far didattica è sbagliata. “Sa, noi non siamo qui per insegnare. Questo è il modo che la società ha trovato per dare uno stipendio agli intellettuali”.

Il modello per cui l’università è un istituto di ricerca dove l’insegnamento è secondario e accessorio alla ricerca è francese, come tante delle cose che hanno fatto e poi disfatto l’Italia. Si tratta del modello del Collège de France, l’istituzione di alta ricerca della Sorbonne. Il primo dei problemi dell’università italiana è che per una serie di coincidenze si è costruito un edificio istituzionale lussuosissimo, in cui ogni singolo membro è libero di sentirsi un Michel Foucault in libera, liberissima, docenza.

La prima coincidenza che ha reso possibile la trasformazione di un numero sempre maggiore di sedi universitarie in una specie di Grand établissement parigino è l’improvvida applicazione dello statuto dei lavoratori al lavoro intellettuale. Una volta assunto anche solo come ricercatore, nessuno poteva essere più licenziato se non per giusta causa, quindi mai. Fino all’anno scorso, infatti, l’Italia offriva al ricercatore a tempo indeterminato la tenure, ossia quella cosa per cui nel mondo anglosassone bisogna passare un certo numero di prove e revisioni che in media prevedono 10 anni di duro lavoro.

La seconda coincidenza è la storica assenza assoluta e totale di verifica e valutazione del lavoro. Nei 10 anni in cui si raggiunge la tenure, nel mondo anglosassone si è sottoposti ad una serie infinita di prove e revisioni di status. Capirete bene con quanta ammirazione dobbiamo guardare a quei nostri docenti che effettivamente hanno fatto ricerca e pubblicato qualcosa di rilevante. Avrebbero potuto benissimo farne a meno; non ce n’era il minimo bisogno. Visto che con il tempo anche in ambiente universitario si è fatta strada la promozione per anzianità, in molte materie bastava pubblicare ogni tanto brogliacci o articoli collettivi o curatele di collettanee, o niente di tutto questo, per passare il concorso e salire di grado.  

3. Il secondo problema dell’università italiana è correlato al primo. Per quanto stonata possa sembrare l’affermazione, non tutti meritiamo di fare ricerca come se fossero al Collège de France, dove si insegna solo se si ha voglia e senza fare esami.

La didattica è importante ma negli anni passati è stato trattato come l’ultimo dei problemi. Avendo un esercito di docenti illicenziabili, il sistema si è cristallizato alla mera distribuzione dei corsi da assegnare ad ognuno di essi. Quindi, una volta assunti semiologi sull’onda delle mode in vigore negli anni Settanta, a questi semiologi bisogna affidare corsi e ai loro allievi bisogna pur trovare un posto. Non importa se nel frattempo la semiologia è scomparsa, come prima o poi accade a tutte le cose. Lo stesso discorso vale per l’insegnamento delle lingue. Ovunque sono stati messi corsi di inglese, e ci mancherebbe. Ma visto che i docenti nostrani che insegnano inglese reputano l’insegnamento della lingua al di sotto del loro rango, il Ministero ha in realtà disseminato ovunque corsi di letteratura inglese, a volte tenuti persino in italiano. A che cosa servano questi corsi non è dato sapere, ma l’importante e tenere occupato chi non può essere licenziato. Su questo presupposto ogni riforma è vana. È come la schiavitù negli Stati Uniti. Si è cercata inutilmente di contenerla, ma alla fine c’è voluta una guerra civile per cancellarla. Occorrerà dunque un cataclisma per interrompere la germinazione in vitro di materie morte?

No, ma basterebbe l’abolizione del valore legale del diploma universitario. Vediamo come.

4. In genere si dice che abolire il valore legale del titolo di studio serve a porre termine a un’ingiustizia. Oggi, chi si presenta a un concorso pubblico, vede attribuire alla sua laurea un punteggio in base al mero voto conseguito. Per cui chi ha preso 109/110 frequentando, magari fuori sede, una istituzione di consolidata reputazione dove si fa ricerca avanzata riceve meno punti di chi ha preso un 110/110 in una delle nuove Università telematiche dove il contato con il docente è del tutto virtuale e dove la ricerca è nulla. Non ha senso e probabilmente non è giusto. 

In realtà, l’abolizione del valore legale andrebbe fatta per togliere dalle mani del Ministero la procedura di omologazione dei corsi con cui si costruisce la finzione di una equipollenza fra diplomi, imponendo a ogni università di fare gli stessi identici corsi. Il ragionamento è semplice quanto assurdo: se in una università di chiara fama si istruiscono gli stessi corsi offerti per via telematica da una università virtuale, i diplomi avranno lo stesso valore. Certo, lo avrebbero, se la natura umana fosse isomorfa e vi fossero costanti verifiche. Ma purtroppo sappiamo che non è così. Abolendo il valore legale si possono finalmente lasciare libere le singole università di realizzare programmi più aderenti ai profili di laureandi che il mercato del lavoro effettivamente richiede.

Arriviamo così alla guerra di religione in corso. Mercato del lavoro? Orrore. Noi formiamo giovani intellettuali, non ingranaggi da inserire nella macchina neo liberista (bla, bla, bla) che produce profitto (ahi!). In altre parole, in un sistema dove ognuno è Michel Foucault, si formano altri membri del Collège de France universale, mica gente che ha bisogno di lavorare per vivere. E qui veniamo davvero al dunque.

5. Per una sequela di ragioni storiche e culturali, in Italia i docenti universitari provengono per la gran parte dall’alta borghesia, se non dalle famiglie di gran casato. Quando occorre rimanere per una decina d’anni senza stipendio per dare corpo ai logoranti rituali d’abiezione richiesti ai neofiti per ottenere l’accesso all’illicenziabilità, è ovvio che solo chi non ha bisogno di guadagnare per vivere può permettersi la libera docenza.

Questa è la cosa più pericolosa dall’attuale sistema, che un paese democratico non dovrebbe tollerare: un sistema in cui solo gli strati più conservatori (in senso tecnico) formano nuova classe dirigente. E in effetti, si vedono già i primi passi che vorrebbero introdurre ad ogni passo valutazioni effettive, come per esempio l’inserimento del ricercatore a tempo determinato come primo gradino d’accesso al sistema e l’introduzione di verifiche di breve e medio termine. Solo dopo varie prove si capirà se la persona può essere assunta a tempo indeterminato.

Ma il sottofinanziamento e la connaturata tendenza italiana a manomettere le regole del gioco sembra aver già svuotato questa riforma, tanto che oggi, come ieri, rimane una sola cosa da fare a chi è veramente bravo e vuole realizzare qualcosa di utile alla società oltre che se stesso. Andarsene dall’Italia, magari al Collège de France, ma per merito. Non per ignavia.