L’AGI - l’Agenzia Giornalistica Italiana - mi ha intervistato due volte il 18 e il 19 marzo. Qui trovate quanto è stato poi pubblicato. Mi sembra una sintesi accettabile degli ultimi sviluppi della vicenda. Conto nel futuro immediato di approfondire soprattutto la parte che nell’intervista è definita come “privata” della crisi del corona virus. La parte qui definita come “pubblica” è molto commentata, e spesso molto bene, mentre quella “privata” è poco commentata.
In tempi di corona virus preoccupa più il contagio o l'incertezza? Entrambi secondo Giorgio Arfaras, direttore di Lettera Economica del Centro Einaudi, per cui l'incertezza nella gestione come anche nella dinamica di diffusione del virus è la grande variabile da considerare per comprendere la "profondità" della situazione che stiamo vivendo. Contattato dall'AGI, l'economista sottolinea il rischio che deriva dalla "totale incertezza" in cui viviamo in questi giorni "perché da un lato c'è un vuoto di domanda come mai prima d'ora e ci sono gli investimenti che vanno a picco, dall'altro c'è una rischiosità dell'offerta che è legata alle catene di valore internazionale, che in un momento in cui il corona virus passa da un Paese all'altro non si sa come gestire. In più - osserva - gli strumenti che abbiamo a disposizione sono da crisi classica, non da crisi nuova". Ma attenzione, tiene a precisare, qualsiasi sia l'analisi che si fa "non dobbiamo dimenticare che questa non è la fine del mondo. Che non siamo in guerra e che noi e i nostri figli mangiamo esattamente come prima della crisi da corona virus".
Ma cominciamo dall'inizio. "La prima novità - è l'analisi di Arfaras - è nella dimensione del vuoto di domanda. L'attuale crisi legata al Covid-19 è una cosa del tutto nuova, di cui nessuna ha idea. Analizzandola dal punto di vista economico, va messa a fuoco innanzitutto la caduta della domanda per i consumi e gli investimenti in tutti i Paesi che subiscono l'impatto del virus: banalmente - spiega - c'è un vuoto di domanda perché nessuno prende il treno, nessuno affitta una camera d'albergo, nessuno fa più una convention. È un vuoto di domanda di un'entità nuova. In più, le imprese non investono in un momento di estrema incertezza. E questo succede in tutte le crisi, ma mai in modo così intenso: mai per tre mesi nessuno ha preso una stanza
d'albergo a Venezia, per fare un esempio". Altra novità, prosegue nel ragionamento l'esperto, "riguarda le catene di valore: un telefonino è progettato in California e prodotto in Cina con processori coreani. In un'economia globalizzata, a questo punto con l'epidemia in Cina non si fanno più i telefonini; il virus arriva in Corea e non si fanno più i processori". Insomma, sintetizza, "al vuoto di domanda si somma una rischiosità dell'offerta che è legata alle catene di valore internazionale, che in un momento in cui il corona virus passa da un Paese all'altro non si sa come gestire".
La crisi di domanda, continua l'economista, "si può attenuare con provvedimenti ad hoc (penso alle misure varate dal Governo italiano) o dando finanziamenti a pioggia (l'ipotesi di ricorrere all'helicopter money negli Stati Uniti) per creare un minimo di certezza. Si tratta però di provvedimenti 'tampone', perché nessuno sa come si potrà uscire da questa crisi". Poi c'è la politica monetaria "che però più di tanto non può fare". E spiega: "Quando i tassi di interesse erano al 5% ai tempi della crisi Lehman, dieci anni fa, si potevano portare dal 5 all'uno per cento con un intervento significativo. Ma dal momento che sono nulli, l'effetto è assai modesto. Quindi i tassi di interesse non dovrebbero avere grandi effetti. La politica monetaria non è più quella dell'abbattimento dei tassi, quanto quella di intervenire come una specie di ambulanza nei confronti di situazioni drammatiche delle economie. Ovvero: diamo alle banche una quantità enorme di credito a tassi risibili in maniera tale che le banche eventualmente ri prestino sempre a tassi risibili questi soldi a imprese e famiglie. Quindi è più la variazione della quantità di moneta, diciamo così, che conta in questo momento piuttosto che il tasso". Altra "inquietante" novità che alimenta l'incertezza, sottolinea in conclusione l'economista: "A oggi non sappiamo se ci sarà un secondo giro dell'epidemia. Ad esempio, i mercati asiatici oggi sono caduti perché sembra che ci sia un ritorno del virus. Noi non lo sappiamo. Magari siamo quasi vicini al picco, come dicono molti esperti per l'Italia, e i contagi stanno rallentando. Ma se allentiamo le misure restrittive e ricominciamo ad andare al supermercato perché pensiamo che i contagi siano in calo, se ci dovesse davvero essere un secondo giro di virus, a quel punto rischiamo di dover ricominciare d'accapo". Sempre tenendo bene a mente, però, "che questa è un'epidemia, e non una guerra".
Il dollaro si conferma un bene rifugio, l'importante è avere una politica di salvataggio. E' di questa opinione Giorgio Arfaras, direttore di Lettera Economica del Centro Einaudi, che parlando con l'Agi osserva che "la variazione è minima. Il dollaro è un bene rifugio dove di fatto tutti convergono, ma il quadro non cambia". L'economista ricorda che "abbiamo negli Stati Uniti una manovra di espansione sia monetaria sia fiscale e anche in Europa finalmente abbiamo la stessa cosa con il bazooka della BCE ma il contesta non cambia minimamente. Quando c'è una grande crisi finanziaria - spiega - di norma il dollaro si rafforza, e anche le obbligazioni, perché sono beni rifugi. Quello che conta adesso è che abbiamo una politica sia fiscale che monetaria di salvataggio".
Benissimo il bazooka della BCE, "che è l'ambulanza di pronto soccorso" ma sul lungo periodo "la guarigione passa nelle mani di milioni di micro-decisioni d'impresa e di consumatori che decideranno che cosa fare. Intanto, comunque, il paziente è stato salvato". L'economista Giorgio Arfaras, direttore di Lettera Economica del Centro Einaudi, interpellato dall'AGI, tiene a sottolineare la differenza "fra terapia shock di sopravvivenza" e "cura" e già si proietta al dopo corona virus, quando saranno le imprese e i consumatori a dover rimboccarsi le maniche e alzare la testa per far ripartire l'economia. La BCE non aveva alternative" per rispondere all'emergenza Covid-19, osserva l'esperto, e "ha fatto bene a usare il suo bazooka. Anzi il bazookone, si corregge. Ma il punto è che "siamo di fronte a una crisi nuova" e che "in confronto le crisi dello spread 2011 e dei mutui sub prime del 2008 sono delle cose modeste".
Adesso, prosegue nella sua analisi, "la vera novità è che c'è una caduta della domanda molto più consistente di allora e la possibile rottura delle catene di produzione in un'economia che è molto più globalizzata: è per questo che nessuno sa 'che pesci prendere'. Nessuno sa come andrà a finire", insiste. E si domanda: "Sarà l'economia in grado di ristrutturarsi tenendo conto di tutto quello che è accaduto?". La risposta resta sospesa.
Osserva ancora Arfaras: "È quindi un problema non della politica economica ma del tessuto produttivo, perché sono le imprese che devono affrontare i problemi. La parte pubblica è relativa a creare una domanda che altrimenti non c'è, dando soldi oppure comprando titoli di Stato in modo che decrescano un po' i rendimenti. Ma, detto questo - prosegue nel ragionamento - è il privato che deve decidere se continuare a mettere le fabbriche in Cina piuttosto che Vietnam, e così via. La dimensione pubblica, che non è da poco, resta però metà della storia. La guarigione passa nelle mani di milioni di decisioni imprenditoriali". Milioni di persone, conclude, "devono decidere cosa fare una volta che al pronto soccorso è stata fatta una terapia intensiva e il paziente non è morto. La cura è affidata alle imprese nel lungo periodo. Intanto siamo salvi. E va benissimo così".
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