Una breve verifica dell’impatto degli ultimi avvenimenti racconta cose in parte scontate, in parte no. Rispetto a lunedì 31 ottobre il rendimento del titolo a 5 anni dell’area euro (calcolato ponderando i rendimenti per il peso del debito pubblico) è passato da 4,6% a 5,0%. L’effetto è interamente imputabile alle decisioni del governo ellenico: infatti, eliminando la Grecia il tasso è persino sceso, dal 3,6% al 3,4% mentre il rendimento dell’emissione EFSF a 5 anni è cambiato marginalmente, dal 2,6% al 2,7%. Data la complessità della situazione, ogni singolo componente del puzzle acquista un valore particolare, in grado di cambiare la direzione degli eventi.
Proseguendo nella ricerca di elementi che aiutino a capire la lettura della direzione degli eventi da parte degli investitori (cioè tutti) che quotidianamente decidono cosa fare e non fare, possiamo aggiungere che la probabilità che oggi è incorporata nei prezzi che la moneta unica dell’eurozona venga abbandonata entro 5 anni è il 20% (entro la fine dell’anno prossimo la probabilità è del 6%) (*). Questo valore non sembra essere maggiore del momento più critico di fine settembre, almeno in termini di percezione del rischio incorporato nei prezzi. E’ come se in qualche modo l’ulteriore drammatizzazione del percorso di risanamento inducesse a ritenere che la prossimità della soluzione sia aumentata, qualunque essa sia. Il ribasso del tasso da parte della Banca Centrale Europea aggiunge velocità al movimento.
A questo punto parlare di Borse sembra avere poco senso, dato che la concentrazione è completamente assorbita da altri eventi. Ma forse può interessare una delle tante possibili fotografie di una classe di attività finanziarie che valgono circa U$ 30.000 mld e che hanno rappresentato una incredibile valvola di sfogo per la necessità di liquidità che ha attraversato l’eurozona e non solo, sopperendo in buona parte al venir meno delle funzioni del mercato interbancario.
La fotografia inquadra il tasso a dieci anni e il rendimento dei dividendi azionari (c.d. dividend yield) confrontandone l’appetibilità relativa. La premessa fondamentale è, ovviamente, la diversa rischiosità delle due classi di attività che confrontiamo (titoli di Stato e azioni) ma dobbiamo ammettere che siamo in difficoltà nell’utilizzare, ad esempio, il premio per il rischio che le azioni hanno pagato rispetto ad attività storicamente prive di rischio come i titoli di Stato. Lasciamo a ciascuno la libertà di ridurre od aumentare i valori di base inseriti nel grafico a seconda della soggettiva percezione del rischio.
L’informazione che il grafico fornisce riguarda l’esistenza di tre mondi azionari distinti:
1) i BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) posizionati nella parte superiore sinistra dove i tassi governativi sono superiori (anche di molto nel caso del Brasile) al dividendo pagato dalle azioni;
2) l’area Euro e l’Oceania che mostrano, viceversa, dividendi azionari uguali o superiori ai rendimenti delle obbligazioni governative;
3) il Resto del Mondo (ultimo ma non minore…) con dividendi azionari inferiori ai rendimenti dei titoli di Stato.
Una classificazione di questo tipo ci espone al rischio di essere ingabbiati in contrapposizioni quali “valore” e/o “crescita” ma, data la particolarità della situazione finanziaria attuale, ci limitiamo ad osservare questa fotografia pensando che possa offrire spunti in qualcuna delle prossime, probabili, possibili decisioni, anche se forse bisognerà attendere il raggiungimento di un punto di equilibrio sostenibile nella gestione dei debiti pubblici prima di sentir parlare di mercati azionari.
(*) Valori che si ottengono facendo la media (ponderata per il peso del debito di ogni singolo paese) della probabilità di fallimento implicita nei CDS (Credit Default Swap) a 5 anni e con una probabilità di recupero del capitale del 40%.
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