Gli Stati Uniti perseguono una politica fiscale lasca, anzi sono fra le economie avanzate quelli con la politica fiscale più lasca. E la perseguono nonostante abbiano imboccato un sentiero di crescita elevato. Altrimenti detto, perseguono una (inutile?) politica fiscale pro-ciclica. Intanto gli altri Paesi – sia quelli avanzati sia quelli in via di sviluppo – generano un flusso di risparmio maggiore dei loro investimenti, con il risparmio in eccesso che può approdare negli Stati Uniti. Questi ultimi hanno perciò a disposizione una gran quantità di risorse per finanziare il loro deficit di risparmio. Avendo oltrettutto anche dei tassi di interesse e dei rendimenti crescenti, mentre gli altri Paesi - con caratteristiche simili - li hanno più bassi o, addirittura, nulli. Tutto sembra funzionare, ma si hanno degli “effetti colaterali”.
I Paesi indebitati in dollari – soprattutto emergenti - si trovano e si troveranno ad avere un debito più costoso in conto interessi per effetto dei tassi e rendimenti crescenti negli Stati Uniti, e più costoso in conto capitale per la rivalutazione del dollaro. I Paesi indebitati hanno, infatti, ricavi in moneta locale, a fronte dei debiti in dollari. Oggi i Paesi indebitati in dollari sono meno numerosi di quanto non fossero ai tempi della crisi soprattutto asiatica della fine degli anni Novanta, perchè in molti da tempo preferiscono indebitarsi nella propria moneta proprio per evitare che un rialzo dei tassi e del cambio del dollaro li possa mettere in difficoltà.
Fra i Paesi messi peggio - in un mondo di interessi crescenti e del cambio in ascesa del dollaro - si hanno l'Argentina e la Turchia. Sono messi peggio, perché hanno dei tassi di risparmio modesti e non sono dei grandi esportatori. Perciò sono incentivati a indebitarsi in dollari per forzare la crescita economica. In Argentina il governo si è molto indebitato in dollari. Si è così avuta una crescita economica che ha portato al deficit della bilancia dei pagamenti. A quel punto il debito in dollari, che continuava ad essere acceso, ha finito per finanziare le importazioni e non a rimpinguare le riserve di valuta. Per questa ragione – i dollari erano spesi per tenere in piedi una sistema ormai squilibrato – i mercati finanziari hanno smesso di sottoscrivere il debito argentino. In Turchia non è stato il governo ma le imprese a indebitarsi in dollari. Anche qui la crescita finanziata con i dollari ha generato un deficit della bilancia dei pagamenti, che richiedeva altri dollari per essere finanziato. E, come nel caso argentino, l'offerta internazionale di credito si è prosciugata.
Gioca un ruolo anche il petrolio. I Paesi indebitati in dollari ma esportatori di questa materia prima da un lato hanno un costo crescente (in conto interessi) del loro debito in dollari, dall'altro hanno dei ricavi crescenti in dollari da quanto il prezzo dei barile di petrolio (che si forma in dollari) è triplicato. I Paesi importatori di petrolio come la Turchia sono, invece, ulteriormente penalizzati: oltre al maggior costo del debito in dollari debbono pagare di più anche il petrolio.
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