Suddivido il ragionamento in tre parti: 1) se le azioni statunitensi sono attraenti – la risposta alla fine dipende da un giudizio “storico-politico” e non finanziario; 2) se le azioni giapponesi sono attraenti – fintanto che non si giunge al limite dell'accumulazione del debito pubblico, esse lo sono; 3) se il rischio che corre l'Italia è ancora molto elevato – lo è ancora, come mostra l'analisi della crisi del 2011 e quella del mancato risanamento.

Le azioni statunitensi

Le azioni statunitensi sono tornate ai massimi livelli del 2000 e del 2007, con ciò mostrando che è tornata la “fiducia”. Le azioni statunitensi hanno toccato - dal 1928 ad oggi - il massimo circa mille volte, e dunque abbiamo avuto mille giorni di fiducia al picco. Alla fine, il mercato è sempre salito, ossia la fiducia si è – nel corso dei decenni - sempre palesata con dei livelli crescenti di prezzo. Tutto bene allora? Si e no. Intanto, se prendiamo lo Standard & Poor's cui aggiungiamo i dividendi e togliamo l'inflazione, scopriamo che esso non è ancora tornato ai massimi del 2000 e del 2007. Dunque è a un massimo solo se pensiamo che l'inflazione (ossia il potere d'acquisto) non conti.

Ma il dubbio maggiore viene osservando questo grafico, dove si ha la crescita del PIL nominale (la linea blu), la crescita dei profitti delle società quotate che compongono l'indice Standard & Poor's (la linea rossa), e l'indice Standard & Poor's (la linea verde). Si vede che fino al 2000 i profitti crescevano all'incirca come il PIL, e poi sono cresciuti molto di più dal 2003 fino al 2007, e di nuovo molto di più dal 2009 ad oggi. Ossia, fino al 2000 la distribuzione del reddito fra salari e profitti era abbastanza costante, e da allora ha preso una piega differente, premiando - ed anche molto - i secondi. Sempre lo stesso grafico mostra come la borsa sia crescita quanto i profitti fino ai primi anni Novanta, e come da allora, sia salita molto più di quanto siano saliti i profitti. Si può perciò arguire che sia aumentata la fiducia nella dinamica dei profitti, ossia l'idea che questi cresceranno talmente tanto anche nel futuro da giustificare i prezzi che li incorporano nel presente.

La risposta alla domanda se la borsa statunitense sia cara o meno dipende alla fine da un giudizio “storico-politico”. Le imprese statunitensi saranno ancora in grado di catturare una quota così elevata del reddito nazionale?

Le azioni giapponesi

Secondo Richard Koo – capo economista di Nomura Research - il Giappone non è entrato in depressione negli anni Novanta, ma ha soltanto sperimentato una crescita nulla perché aveva capito dov’era il problema. Possiamo chiamare il problema lo «sciopero del debitore». In altri termini, nessuno in Giappone voleva del credito, qualunque fosse il tasso d’interesse praticato, perché doveva rendere il troppo debito che aveva cumulato. Nel caso giapponese erano le imprese non finanziarie a non volere il credito, e se nessuno vuole il credito l’economia non funziona. In questo caso, non sono i tassi, per quanto bassi, che possono ravvivare la richiesta di credito.

La politica monetaria dunque è spiazzata, ossia non basta mantenere bassi i tassi di interesse praticati dalla banca centrale. Resta la spesa pubblica, per salvare le cose: la s’incrementa fino ad assorbire la riduzione di quella privata. I finanziamenti che andavano al settore privato ora vanno a quello pubblico. Il fabbisogno finanziario dello Stato non spinge al rialzo i rendimenti delle obbligazioni, perché il settore privato non chiede più, fintanto che deve ridurre il proprio debito, capitali al mercato. A distanza di anni distanza di anni, Koo ribadisce questo punto di vista, sostenendo che non bisogna tentare di ridurre il deficit pubblico fino a quando non si è sicuri che l’economia torni a chiedere credito. Se si cerca di controllare prima del tempo il deficit pubblico, contando che al minor credito chiesto dal settore pubblico corrisponda un maggior credito chiesto dal settore privato, si rischia di peggiorare le cose – proprio come avvenne in Giappone nel 1997 e nel 2001. L’alternativa, ossia portare subito sotto controllo il debito pubblico per evitare che «scappi di mano», rischia di peggiorare le cose. Insomma, il bilancio pubblico va portato sotto controllo solo quando si è sicuri che è ripartita la domanda di credito del settore privato.

La scelta del Giappone si indebolire il cambio, di far finanziare dalla banca centrale la spesa pubblica in largo deficit, e di riformare i settori economici, sono, secondo Koo, una scelta saggia. Dunque va bene investire in Giappone (lunghi di borsa e corti di yen) per un periodo, ma non alla lunga, perché i vincoli dell'accumularsi di un gran debito pubblico si faranno prima o poi sentire.

Ancora sul rischio Italia

Nel 2011 abbiamo corso un gran rischio. E' finalmente disponibile uno studio sull'argomento che riassumo. Confrontiamo due dei Paesi mal messi – l'Italia (che ha un debito pubblico maggiore di quello spagnolo che cresce poco) e la Spagna (che ha un debito pubblico minore di quello italiano che cresce molto). In questo caso, ci si si aspetta che l'Italia debba pagare per il proprio debito un rendimento minore, perché il debito spagnolo prima o poi raggiungerà il nostro, che è, alla fine, sotto controllo. Sappiamo che questa è stata la tendenza (quella di uno spread negativo per l'Italia) fino alla crisi del 2011. Poi, all'improvviso, il nostro debito ha iniziato a pagare un rendimento maggiore di quello spagnolo. Finita la crisi, siamo tornati a pagare di meno. La linea rossa, che misura la discesa della spread a nostro favore, mostra questa tendenza.

Conosciamo il differenziale di rendimento fra il BTP e il Bonos (lo spread dei Paesi Latini), ma non sappiamo quale differenziale avremmo avuto sulla base dei soli fondamentali. Ossia, il differenziale che tiene conto dei dati economici non legati al mercato del debito pubblico dell'Italia e della Spagna - come il deficit e debito su PIL, la bilancia dei pagamenti, la produzione industriale e via dicendo. Si calcola allora la differenza fra lo spread effettivo e quello che si sarebbe avuto con i soli fondamentali (che ha il nome tecnico di “contro fattuale” - ossia risponde al quesito “che cosa sarebbe accaduto se”).

Tornando al grafico riportato. La differenza fra lo spread osservato - la linea rossa - e quello che si sarebbe avuto con il contro fattuale “privo di finanza” - la linea blu - approssima la “credibilità” di un Governo agli occhi dei mercati finanziari. Nel periodo della crisi il differenziale del BTP versus il Bonos si è allargato ben più di quanto fosse giustificato sulla base dei soli fondamentali – la misura è la differenza fra la linea rossa e quella blu. Ossia, agli occhi dei mercati il Berlusconi III non era credibile, mentre il Monti I lo era. Finita la crisi, il differenziale con la Spagna è tornato a nostro favore, anche prima dell'annuncio di Mario Draghi che sarebbe stata fatta “qualsiasi cosa” per salvare l'euro.

Abbiamo così avuto nel corso della crisi un forte deterioramento che non era giustificato dai soli fondamentali. Il che dà ragione a chi all'epoca si meravigliava della crisi e rimaneva sconcertato dai comportamenti dei mercati finanziari (e restava investito). Ma dà anche ragione a chi sosteneva che era necessaria una maggiore credibilità – che si sarebbe potuta avere, varando fin da subito la riforma delle pensioni - per riportare le cose velocemente in ordine (e aspettava per investire). La novità dell'analisi qui riportata è che lo spread è quello relativo alla Spagna – un Paese mal messo - e non, come si usa fare, con la Germania – un Paese ben messo. In questo secondo caso non si è avuta con Monti I la chiusura immediata dello spread. Quindi abbiamo subito guadagnato una credibilità relativa rispetto ai Paesi mal messi, ma non abbiamo ancora guadagnato una credibilità assoluta rispetto ai Paesi ben messi.

Credibilità assoluta che è difficile guadagnare sulla base di queste considerazioni. Da quando si ha la moneta unica i rendimenti delle obbligazioni convergono – ossia gli spread si riducono. Non si ha, infatti, l'effetto negativo del cambio – la Lira si svalutava e di conseguenza era richiesto un premio di interesse sui titoli del Tesoro per coprire il rischio del cambio - mentre la Lira debole alzava, grazie al maggior prezzo dei beni importati, il tasso di inflazione. L'assenza del rischio cambio – i nostri titoli del Tesoro sono in euro proprio come quelli tedeschi – e l'inflazione schiacciata – essa è ancora più alta di quella tedesca ma, meno alta di quanto fosse in passato – hanno dimezzato il rendimento dei BTP, che è passato dal 9% al 4,5%. Il minor costo nominale del debito si è tradotto in minori oneri da interesse. Insomma, da quando siamo nell'Euro – come candidati dal 1996 e come membri effettivi appena dopo - si è avuto un risparmio di interessi sul debito di circa 50 miliardi l'anno ogni anno, un numero in linea con il gettito dell'IMU e dell'IRAP.

Il valore aggiunto dei tedeschi del settore aperto alla concorrenza internazionale è maggiore di quello francese, italiano, e spagnolo. Il valore aggiunto si divide poi in salari e profitti. Il caso tedesco è quello di un valore aggiunto maggiore grazie al quale si possono distribuire dei salari più elevati, che, incidono poco sulla competitività, se la crescita salariale è in linea o inferiore a quella della produttività. Viceversa, il nostro valore aggiunto è inferiore a quello tedesco, i nostri salari sono in linea con quelli tedeschi in rapporto al valore aggiunto, ma la loro crescita, a differenza di quella tedesca, è stata maggiore di quella della produttività.

Grazie all'euro abbiamo avuto dei minori oneri da interesse, che, invece di contribuire a tagliare il debito pubblico, sono stati “mangiati” dalla crescita della spesa. Il nostro sistema industriale genera un minor valore aggiunto, e la crescita salariale è stata maggiore di quella della produttività. Insomma, non è colpa dei tedeschi se abbiamo un gran debito pubblico e siamo diventati meno competitivi.

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