L'andamento delle economie è stato peggiore delle attese (§1), intanto che i sistemi politici fanno fatica a prendere delle decisioni (§2). I bilanci pubblici attenuano il peso della crisi, con il debito che è cresciuto molto. Con la fine delle politiche monetarie ultra espansive si dovrebbe avere un rialzo del costo del debito (§3). Nonostante questo quadro poco incoraggiante, la borsa statunitense sconta una crescita sostenuta (§4).

1- La ripresa è moscia e non sappiamo bene perché

Solitamente si osservano gli andamenti del PIL come variazione periodale, oppure come variazione da un certo momento. Per esempio, si legge sui giornali o si vede alla TV che l’economia italiana – ecco la variazione – è flessa del 2% sull’anno precedente, oppure che è – ecco il livello – ancora sotto del 10% rispetto al PIL dell’ultimo anno prima della crisi. Il ragionamento del FMI è più complesso ed anche più “cattivo” (anche verso se stesso).

Le previsioni del FMI nei diversi anni messe a confronto con gli andamenti effettivi si trovano su IMF, World Economic Outlook, Ottobre 2013, pagina 28, tavola I.13. Si prende il trend – la tendenza – che era formato negli anni 1996-2006 – i primi segnali di crisi si ebbero infatti nel 2007 e dunque il conto si ferma l’anno prima – e lo si proietta nel futuro. Il trend 1996-2006 è calcolato come la media (geometrica) delle variazioni del periodo. Si proietta il trend – ossia si immagina come andrebbe l’economia se si fosse ancora sul sentiero del 1996-2006. Le previsioni del FMI sono la distanza da questa tendenza proiettata.

Altrimenti detto, l’economia europea è andata tre volte peggio delle previsioni del FMI – un 10% di flessione effettiva (rispetto al trend) intorno al 2011-2012, contro un 3% della previsione (sempre rispetto al trend) del 2008. E relativamente all’oggi, siccome l’economia si riprende poco, ecco che la distanza dal trend si è ulteriormente ampliata – essa è, infatti, pari al 16% nel 2018. Ci si può consolare osservando che anche gli Stati Uniti saranno nel 2018 sotto del 10% rispetto al loro trend. In conclusione, è successo qualche cosa, di cui sappiamo ancora poco – infatti i modelli di previsione del FMI non lo hanno colto -, che ha “ammosciato” le economie.

2- Indecisionismo politico e bilanci pubblici

Agli inizi di ottobre era in discussione la tenuta del governo Letta. All'ultimo momento, e forse inaspettatamente, esso ha ottenuto una larga fiducia, e poi ha varato la manovra di stabilizzazione, in cui non si vedono delle grandi decisioni né sul fronte delle uscite né su quello delle entrate. Era dagli inizi di ottobre in discussione la tenuta del bilancio pubblico statunitense. All'ultimo momento, e come atteso, è stato di deciso … di decidere fra un paio di mesi, intanto che il Tesoro torna ad avere i mezzi per ottemperare i propri obblighi. Insomma, tutto sembra arrivare a un punto di rottura, che poi non si manifesta.

Un'interpretazione potrebbe essere quella che asserisce che il potere oggigiorno è sminuzzato al punto che nessuno riesce a prendere il sopravvento. In Italia il “partito della spesa” ha la stessa forza di quello a favore del minor carico fiscale, con i due vettori che si equivalgono. Negli Stati Uniti il bilancio pubblico è votato dal Parlamento, ma la sua decisione può essere bloccata dal veto del Presidente. Il quale Presidente può bloccare le decisioni del Parlamento solo se ottiene i due terzi dei voti del Parlamento medesimo a favore del suo veto.

Insomma le decisioni sono difficili da prendere. Per esempio la spesa sanitaria e pensionistica sarà crescente, perché la popolazione invecchia, e dunque i “meno anziani” dovranno finanziarla. Ma l'età mediana è molto alta – per esempio in Italia è di 45 anni -, e dunque i “più anziani” posso votare a favore di una sua estensione, o, quanto meno, per il suo mantenimento. Negli Stati Uniti quote crescente di popolazione – come gli ispanici, gli afro americani – chiedono lo “stato sociale” e dunque il finanziamento dello stesso da parte degli altri. Da qui la forza del Tea Party, che vuole ridurre al minimo l'estensione dei diritti acquisiti. Eccetera.

Quando si hanno dei sistemi efficaci di bilanciamento del potere - come si è visto in questi giorni negli Stati Uniti - e quando si ha la rappresentanza diffusa dei molteplici interessi – come si è visto in questi giorni in Italia – insomma, quando si ha una democrazia, ecco che le decisioni o non vengono prese, oppure possono essere prese se nascoste dietro i “vincoli”.

I vincoli sono, alla fine, legati al giudizio dei mercati sulla dinamica del debito pubblico. Altrimenti detto, il sistema delle “non-decisioni” si scarica sul bilancio dello stato, che emette debito, che è giudicato da una terza forza non eletta almeno direttamente, che sono i mercati finanziari. Da qui quelli che pensano che i mercati svolgano una funzione sana, che è quella di evitare che le non-decisioni di oggi si scarichino sulle generazioni future, e quelli che pensano che la Sovranità stia proprio nella libertà di concentrasi sui bisogni dell'oggi.

3- Bilanci pubblici e uscita dalle politiche monetarie ultra espansive

Prendiamo le stime del FMI, Fiscal Monitor, Ottobre 2013, pagina 13, tavola 1. Si ha il deficit corrente e quello che si avrebbe se non ci fosse la crisi – ossia con maggiori entrate a parità di aliquote e minori esborsi, quali sono le uscite per gli “ammortizzatori sociali”. Entrambi sono rapportati al PIL – nel primo caso corrente, nel secondo potenziale. Come si vede dalla tabella, il bilancio pubblico statunitense è messo peggio di quello dell'euro area e quello italiano è migliore della media (pesata) dell'euro area.

Deficit effettivo 2008 2012 2013 2014
Stati Uniti -6,50% -8,30% -5,80% -4,60%
Europa-Euro -2,10% -3,50% -3,10% -2,50%
Italia -2,70% -2,90% -3,10% -2,10%
Deficit ex ciclo
Stati Uniti -5,00% -6,30% -3,90% -3,20%
Europa-Euro -3,30% -2,70% -1,60% -1,20%
Italia -3,60% -1,20% -0,70% 0,10%

Sommando al debito che va in scadenza quello che viene generato dal deficit corrente, si ha il fabbisogno finanziario (messo in rapporto al PIL). In questo modo, si ha una misura della vulnerabilità finanziaria. Nel caso di una ascesa dei tassi e dei rendimenti, tanto maggiore il fabbisogno, tanto maggiore l'onere del debito per il Tesoro. Per i numeri: FMI, Fiscal Monitor, Ottobre 2013, pagina 25, tavola 5. La Germania e la Svizzera sono quasi immuni – in termini di un maggior costo del debito – dall'impatto di un rialzo dei tassi e dei rendimenti, a differenza degli altri Paesi.

Debito in scadenza 2013 2014 2015
Giappone 58,40% 58,10% 54,20%
Italia 28,40% 28,10% 28,30%
Stati Uniti 23,90% 24,30% 23,00%
Germania 8,30% 8,10% 5,50%
Svizzera 3,30% 3,00% 2,30%
Paesi avanzati 22,30% 22,50% 21,40%

A questo punto possiamo chiederci che cosa accadrebbe se la politica monetaria ultra espansiva diventasse meno lasca, ossia che cosa accadrebbe soprattutto se la Banca Centrale degli Stati Uniti frenasse il passo degli acquisti di obbligazioni. Una politica monetaria ultra espansiva non può, infatti, durare per sempre, prima o poi i prezzi delle attività finanziarie si dovranno formare senza la domanda di origine pubblica (ossia, della banca centrale).

Per quel tanto che la politica ultra lasca dura (e ormai sono quattro anni di ultra espansione) si ha un assorbimento di titoli da parte delle banca centrale che porta a tre conseguenze: 1) sono schiacciati i tassi degli strumenti monetari – ci si indebita con la banca centrale fino a quando gli strumenti monetari rendono quanto il tasso di sconto -, 2) sono spinti in alto i prezzi delle obbligazioni – queste sono acquistate dalla banca centrale e quindi tolte in parte dal mercato, e, infine, 3) è schiacciato il costo del debito pubblico e dunque il costo politico delle politiche fiscali. Possiamo perciò immaginare che senza gli acquisti di obbligazioni da parte della banca centrale - acquisti che, togliendo dal mercato molti titoli, li rende più “rari” - si avrebbero dei rendimenti maggiori.

Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali si avrebbero - in caso di rialzo dei rendimenti - delle perdite notevoli (grafico I.3 pagina 9: http://www.bis.org/publ/arpdf/ar2013e1.pdf ). Nel caso del Giappone, che ha un debito pubblico pari al 200% del PIL – si avrebbe una perdita in conto capitale sullo stock di obbligazioni pari al 40% del PIL. Per l'Italia la stima è pari al 20% del PIL. Attenzione, la perdita è “figurata”, ossia si ha con i prezzi correnti registrati come tali a bilancio, perché alla scadenza le obbligazioni sono rimborsate alla pari. La Banca dei Regolamenti stima un rialzo del 3% assoluto di tutta la "curva dei rendimenti", ossia 300 punti base. Secondo il Fondo Monetario (FMI, Global Financial Stability Report, Ottobre 2013, pagina 21, Tavola 1.2) si ha un portafoglio mondiale di obbligazioni (lo stock) del valore di 40 mila miliardi di dollari, con una durata finanziaria di sei anni. Il risultato dei loro conti è che per ogni uno per cento assoluto di rialzo (100 punti base) di tutta la curva dei rendimenti si ha una perdita di poco meno del 6% del valore dello stock.

4 - La borsa statunitense è cara, quella europea molto meno

Proviamo con un solo grafico a fare il punto sulla borsa statunitense, osservando la storia della stessa. Abbiamo il livello dell’indice aggiustato per l’inflazione – per eliminare l’”illusione monetaria”, e abbiamo il rapporto puntuale fra i prezzi e gli utili correnti, oltre alla mediana, i minimi e i massimi di questo rapporto. Sulla base di questi numeri proviamo a dire se la borsa è cara oppure no. Prima di tutto, ecco il grafico: http://stawealth.com/images/lettera_economica/1dailyxchange/S&P-500-PE-Reversions-101413-2.PNG

Intanto le valutazioni, ovvero il rapporto fra prezzi (Price), o la capitalizzazione di borsa, e gli Utili (Earnings) in media mobile decennale, in italiano P/U, in inglese P/E. Tante più volte pago gli utili, tanto maggiore è la mia aspettativa di una loro crescita nel futuro, e viceversa. Nel corso della storia il valore mediano (il valore che sta in mezzo allo stesso numero di valori maggiori e minori) del P/E – la linea rossa tratteggiata – è stato appena sopra le 15 volte. Oggi è appena sotto le 25 volte. Nel corso della storia quasi tutte le volte che il P/E ha raggiunto un livello di 25 le azioni sono scese, mentre tutte le volte che ha raggiunto un livello di 10 le azioni sono salite – la linea nera tratteggiata. Le azioni che salgono e scendono sono visibili attraverso l’area verde.

In conclusione, siamo ben lontani dai livelli dai quali i mercati sono sempre saliti, e siamo sui livelli dai quali sono quasi sempre scesi. Solo nel 1929 e nel 2000 si avevano, infatti, dei livelli di P/E maggiori. Possiamo quindi affermare sulla base delle statistiche che non è “certo” che la borsa statunitense verrà giù, ma nemmeno che non può che andar su.

Le azioni europee scontano, a differenza di quelle statunitensi, una crescita modesta, per cui bastano dei segnali di crescita credibili per renderle attraenti. Seguo – nel merito - il ragionamento di Giuseppe Russo (http://bepperusso.altervista.org/what-happens-to-the-us-stock-market-if-the-recovery-slows-down/). Se le azioni hanno un rendimento (dividendo su prezzo) del 4% e se le obbligazioni del Tesoro (cedola su prezzo) hanno un rendimento del 4%, allora il valore attuale perpetuo dei dividenti futuri è pari a 1, ossia la Borsa sconta solo le cedole, che non possono crescere, mentre non sconta alcuna crescita dei dividendi, che, al contrario, possono crescere. Prendiamo il rendimento delle obbligazioni statunitensi e tedesche (in media storica, quello corrente è troppo basso) e confrontiamolo con il rendimento corrente delle azioni statunitensi ed europee. Il rendimento corrente delle azioni statunitensi è del 2% e il rendimento storico (mediano) delle obbligazioni è del 4%. Il rendimento corrente delle azioni europee è del 3% e il rendimento storico (mediano) delle obbligazioni tedesche è del 3,5%. Dunque nel caso statunitense la crescita economica attesa (implicita nei differenziali di rendimento) è pari al 50% del valore corrente delle azioni (1-(2%/4%)=50%), mentre nel caso europeo la crescita economica attesa è pari al 15% del valore corrente delle azioni (1-(3%/3,5%)=15%).

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