{mosaddflag}Da un lato abbiamo una ripresa dell'economia – peraltro rivista frequentemente al ribasso - dall'altro abbiamo delle pressioni sul fronte dell'inflazione da materie prime, e dei debiti pubblici di alcuni paesi, che continuano a crescere in rapporto al PIL. In campo finanziario abbiamo le borse che hanno smesso di salire, i rendimenti delle obbligazioni che sono al di sopra dei minimi raggiunti durante l'ultima crisi, e il dollaro che è debole. Si tratta di capire quale sarà il prossimo movimento “lungo” dei prezzi. Esattamente come nell'estate dello scorso anno, quando, in seguito alla decisione della banca centrale statunitense di comprare il debito pubblico, sono salite le azioni, scese le obbligazioni (ossia saliti i rendimenti), e sceso il dollaro.


Per uscire dalla crisi le politiche monetarie sono diventate espansive sia nella loro componente ortodossa – l'abbassamento dei tassi - sia nella loro componente non ortodossa – l'acquisto di debito pubblico. Per uscire dalla crisi anche le politiche fiscali sono diventate espansive, ossia si sono prodotti dei maggiori deficit in rapporto al PIL.

I tassi di interesse compressi ai minimi termini confliggono con la ripresa dell'inflazione. L'inflazione sta salendo nella componente delle materie prime. Solitamente i prezzi di queste ultime salgono e scendono, ma alla fine non variano molto, ossia sono volatili con un trend in leggero rialzo. Per questa ragione alla fine ci si concentra sull'inflazione al netto di queste componenti negli Stati Uniti, ma non nell'Europa dell'euro.

Siamo sicuri che anche questa volta siamo di fronte a una semplice volatilità delle materie prime – legata alle molte crisi arabe - e non - come potrebbe ben essere nel caso del petrolio (1) - a un salto di direzione permanente legate alla scarsità in rapporto alla domanda? Questo è il primo quesito.

L'acquisto di titoli di stato da parte della banca centrale è stata una scelta dovuta. Andava evitato l'avvitamento dei mercati. La banca centrale europea ha comprato nel secondo semestre dello scorso anno – ai tempi della crisi greca – titoli pari al 20% di tutte le nuove emissioni europee. La banca centrale statunitense ha comprato nel quarto trimestre dello scorso anno titoli pari al 50% delle nuove emissioni (2). Si è evitata nel primo caso una crisi del settore finanziario che deteneva i titoli dei paesi europei periferici. Si è evitata nel secondo caso una crisi che poteva sorgere per l'indecisionismo della politica fiscale statunitense, (tuttora) incapace di combinare un taglio delle spese e un incremento delle imposte. Crisi che avrebbe potuto portare ad un rialzo dei rendimenti delle obbligazioni del Tesoro, e con queste un rialzo di tutti i rendimenti, sia delle obbligazioni emesse dalle imprese, sia di quelle che finanziano i mutui ipotecari.

Siamo sicuri che questi interventi non debbano durare ancora, per sostenere il sistema finanziario in Europa e il livello dei prezzi del debito pubblico negli Stati Uniti? Oppure meglio, che possano durare ancora senza che i mercati incomincino a chiedere dei rendimenti maggiori per preservarsi dal rischio crescente? Questo è il secondo quesito.

Si hanno i paesi che hanno migliorato sia le proprie prospettive di crescita sia i propri deficit puntuali – tutti i paesi europei con l'esclusione della Grecia e del Portogallo, e si hanno quelli che hanno migliorato le proprie prospettive di crescita, ma non i propri deficit – gli Stati Uniti e il Giappone. I paesi meglio messi sul fronte fiscale sono quelli europei con l'esclusione dei paesi minori citati. Passando a dei numeri più precisi – calcolati sulla base di questa domanda: qual'è la manovra fiscale richiesta su un decennio per stabilizzare la crescita del debito? (4) - abbiamo che i paesi che debbono agire in profondità sono nell'ordine: il Giappone, l'Irlanda, gli Stati Uniti, la Grecia, la Gran Bretagna, la Spagna. (L'Italia non compare nelle classifiche di quelli che debbono fare di più per controllare i conti pubblici).

Per quanto possano attendere sperando nella ripresa, molti paesi dovranno agire in profondità per portare sotto controllo il debito pubblico. Le proiezioni che citiamo sono quelle del Fondo Monetario che già tengono conto della crescita economica nella stima delle correzione fiscali. Quindi contare sulla crescita per far poco – ed è comprensibile, dati i costi politici – significa, alla fine, contare su una maggior crescita che il modello econometrico del Fondo Monetario non contempla. E' saggio crederci? Questo è il terzo quesito.

Fermandosi qui – e senza inutilmente complicare - si arriva a una conclusione sulle tendenze (non sulle escursioni di breve termine). I tassi saliranno, e se non saliranno nel caso statunitense, i rendimenti dovrebbero salire lo stesso. Diventerà così più difficile risanare i bilanci pubblici per il maggior costo del debito. Gli Stati Uniti dovrebbero avere un mercato obbligazionario debole e un cambio debole (5). L'impatto sui mercati azionari non si vede come possa essere positivo se sale tutta la curva dei rendimenti in combinazione con un minor crescita dell'economia.

 

Fonti: (1) IMF, World Economic Outlook, da pagina 89 a pagina 122; IMF, (2) Fiscal Monitor, pagina 38; IMF, Fiscal Monitor, pagina 5, (4) IMF, Fiscal Monitor, pagina 22, (5) Le banche centrali dei paesi asiatici e petroliferi hanno smesso di comprare (attenzione non lo stanno vendendo) il debito pubblico statunitense. Vera l'analisi precedente, con un debito pubblico molto debole, che porta a un rialzo dei rendimenti, i flussi verso gli Stati Uniti difficilmente cresceranno nel campo delle azioni e degli investimenti fissi diretti. Segue che il disavanzo della bilancia commerciale statunitense non sarà pienamente bilanciato dall'avanzo nella bilancia dei capitali. Perciò il dollaro dovrebbe restare debole, seppur con sbalzi.

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