Se si prendono gli indici azionari con l’esclusione del settore bancario, essi, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, sono tornati ai livelli precedenti la crisi, quindi ai livelli del 2007. Vigeva allora l’idea di un mondo di crescita economica regolare e senza inflazione. Il ciclo economico sembrava scomparso. Questo mondo dorato era quello della «grande moderazione». Poi è accaduto di tutto. Perché mai i prezzi delle azioni non bancarie sono tornati ai livelli precedenti la crisi? Il resto dell’economia, dal debito pubblico di molto cresciuto all’occupazione congelata, si direbbe che non abbia ruolo nel giudizio dei compratori di azioni non bancarie.
Questi ultimi evidentemente scontano l’uscita indolore dalla crisi. Essi vanno avanti, aspettando che il resto si risani. Dal che si danno due uscite: il resto dell’economia si risana, oppure non si risana. Nel primo caso, le azioni non bancarie dovrebbero fermarsi, perché già scontano il mondo dorato antecedente la crisi, mentre dovrebbero cominciare salire le azioni bancarie. Nel secondo caso, sia le azioni non bancarie sia quelle bancarie sono fragili.
Il risanamento si snoda nel debito pubblico che smette di crescere in rapporto al Pil e nell’occupazione che riprende a salire.
Chi pensa che il risanamento ci sarà segue un modello come il seguente. La spesa in deficit stimola l’economia. I tassi d’interesse quasi nulli stimolano gli investimenti e alleviano il costo del debito delle famiglie. L’economia privata riparte e dunque aumenta l’occupazione. Il maggior reddito genera le imposte che schiacciano il deficit pubblico. Il debito pubblico quindi cresce poco, mentre cresce molto l’economia. E dunque il debito pubblico va sotto controllo. L’intervento pubblico – la politica fiscale in deficit e quella monetaria nella versione tradizionale dei tassi bassi e in quella innovativa degli acquisti di obbligazioni con in pancia i mutui ipotecari e del Tesoro – è stato temporaneo, e tutto torna come prima.
Chi pensa che il risanamento non ci sarà, oppure che ci sarà ma molto in là nel tempo, segue un modello come il seguente. La spesa in deficit forse stimola l’economia. Non si sa se i moltiplicatori della spesa pubblica siano maggiori di uno. I tassi d’interesse quasi nulli per ora non hanno stimolato gli investimenti (esiste ancora un’elevata capacità produttiva inutilizzata che rende vani i nuovi investimenti) e hanno solo alleviato l’onere del debito delle famiglie – i minori tassi su un debito cospicuo alleviano l’onere, ma il debito resta cospicuo e frena i consumi. L’economia privata è ripartita a velocità ridotta, tuttavia non aumenta in modo significativo l’occupazione. Non si conosce bene il motivo per cui l’occupazione sale poco. Il maggior reddito, infine, non genera le imposte che schiacciano il deficit pubblico. Il debito pubblico cresce ancora, mentre cresce poco l’economia. E dunque il debito pubblico non va sotto controllo. Il maggior debito pubblico potrebbe retroagire negativamente, se i suoi sottoscrittori chiedessero rendimenti più alti. Si alzerebbe a quel punto il costo del capitale delle imprese e del debito delle famiglie.
Ognuno scelga il modello che preferisce, ma il gioco non è innocente. Nel caso del modello ottimista si possono comprare le azioni bancarie, e non si teme la parte lunga del debito pubblico. Nel caso del modello pessimista si comprano solo le azioni che distribuiscono un dividendo robusto, e si teme la parte lunga del debito pubblico. Comunque sia, chi scrive pensa che il modello pessimista sia quello giusto.
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