Che cosa sappiamo della Cina? Non parliamo di quel che sappiamo nel campo culturale eccetera, ma di quello che ci serve per prendere le decisioni d’investimento. Sappiamo quanti titoli di stato la Cina possiede negli Stati Uniti, sappiamo quanto esporta. Questi dati sono però forniti dalla Federal Reserve e dalla dogana della California. Che cosa sappiamo davvero? La delicatezza del punto in questione è legata alla convinzione diffusa che «la Cina sì che sta crescendo». Anzi, che la Cina è – fra i «germogli della ripresa» – il più robusto.
Secondo noi s'aggira l’idea – innocentemente sopravvissuta alla caduta dell’Unione Sovietica – dell’efficacia (si noti, non abbiamo scritto «efficienza») dell’economia pianificata, che decide «come un sol uomo». Un conto però sono i giudizi per «fare un bel dibattito», un conto è investire. Per investire in Cina dobbiamo prima liberarci degli idola theatri – l’economia pianificata come meccanismo economico efficace – e poi degli idola fori (1) – la Cina come la grande occasione d’investimento, secondo la proposta dell’industria finanziaria (2).
Confessiamo che, a differenza degli apologeti della Cina, sappiamo poco – vorremmo dire quasi niente – sui numeri concreti delle imprese e della crescita cinese. Se siamo scettici sui bilanci delle aziende quotate statunitensi ed europee in tempi di crisi, forse dovremmo esserlo anche – o addirittura di più? – su quelli cinesi. Non capiamo, poi, come la Cina possa riprendere a crescere molto se, al contempo, la produzione d’energia elettrica diminuisce molto. Non trovando ricerche affidabili sulla Cina – intendiamo, quelle con tanti numeri credibili –, ci dobbiamo rivolgere al mai abbastanza apprezzato giornalismo scettico (3).
Apprendiamo che gran parte dei crediti, quelli volti a rilanciare l’economia a tutti i costi, sono finiti – non essendo chiaro a chi erogarli – in borsa, nonché nell’acquisto di materie prime. Apprendiamo anche – e con sorpresa – che l’agenzia di rating Fitch medita di portare il giudizio sulla tenuta macroeconomica della Cina da un livello alto a uno basso.
Confessiamo che, a differenza degli apologeti della Cina, sappiamo poco – vorremmo dire quasi niente – sui numeri concreti delle imprese e della crescita cinese. Se siamo scettici sui bilanci delle aziende quotate statunitensi ed europee in tempi di crisi, forse dovremmo esserlo anche – o addirittura di più? – su quelli cinesi. Non capiamo, poi, come la Cina possa riprendere a crescere molto se, al contempo, la produzione d’energia elettrica diminuisce molto. Non trovando ricerche affidabili sulla Cina – intendiamo, quelle con tanti numeri credibili –, ci dobbiamo rivolgere al mai abbastanza apprezzato giornalismo scettico (3).
Apprendiamo che gran parte dei crediti, quelli volti a rilanciare l’economia a tutti i costi, sono finiti – non essendo chiaro a chi erogarli – in borsa, nonché nell’acquisto di materie prime. Apprendiamo anche – e con sorpresa – che l’agenzia di rating Fitch medita di portare il giudizio sulla tenuta macroeconomica della Cina da un livello alto a uno basso.
(1) http://it.wikipedia.org/wiki/Metodo_baconiano
(2) http://www.centroeinaudi.it/notizie/avviso-ai-naviganti-/-i.html
(3) http://www.nakedcapitalism.com/2009/06/chinese-banks-accident-waiting-to.html
Nota aggiunta nel pomeriggio del 30 giugno
Gli australiani beneficiano - come esportatori di materie prime - degli acquisti cinesi di materie prime, appunto. Ed è ovvio che i loro giornali (4) siano molto più attenti degli altri ai comportamenti dei cinesi. Sembra che i cinesi vogliano ridurre gli acquisti di materie prime, perchè la crescita economica non è sufficiente per assorbirle, intanto che, comprandole, salgono di prezzo. In altre parole, vogliono evitare di aumentare troppo le materie prime stipate nei magazzini a prezzi crescenti.
(4) http://business.smh.com.au/business/china-signals-end-of-stockpiling-20090629-d2i9.html
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