Nei primi anni Novanta del secolo scorso ci si chiedeva dove potesse portare un successo della Lega. Un economista democristiano spiegava all’uditorio perché la Lega sarebbe potuta diventare una «disgrazia».

di Giorgio Arfaras



Prologo. Al Nord conveniva la secessione?


Nei primi anni Novanta del secolo scorso ci si chiedeva dove potesse portare un successo della Lega. Un economista democristiano spiegava all’uditorio perché la Lega sarebbe potuta diventare una «disgrazia». Questi erano i passaggi del suo ragionamento. 1) Immaginate di dividere l’Italia in due, ciascuna parte con la propria moneta, la Polenta-lira e la Mozzarella-lira. 2) Fate i conti delle due parti. Il Nord sarebbe in fortissimo avanzo di bilancia corrente, il Sud in fortissimo disavanzo. 3) La Polenta-lira diventerebbe una moneta fortissima, e i tassi di interesse nel Nord sarebbero schiacciati, mentre al Sud sarebbe accaduto il contrario, ossia una moneta molto debole e alti tassi di interesse. 4) Il Nord avrebbe agevolmente potuto pagare la propria quota di debito pubblico, mentre il Sud ne sarebbe rimasto schiacciato. 5) Ma la classe dirigente meridionale avrebbe potuto trovare una via di uscita. Il Meridione – con bassi salari e senza un sindacato degno di nota – sarebbe potuto diventare un’area interessante per gli asiatici, che avrebbero potuto aprire gli stabilimenti, come stavano ormai facendo in Gran Bretagna. 6) Salari bassi, controllo sociale alto, una moneta debole e una tecnologia avanzata, insomma. 7) Le imprese del Nord avrebbero non solo perso un mercato che allora controllavano, ma anche quote del loro mercato interno. Insomma, al Nord non conveniva la secessione.



Prologo. Una forza politica non localizzata


Alla fine del 1993 è convocata una riunione presso un centro di ricerca torinese. Si dice subito che le cose che saranno raccontate sono riservate. Curiosità e concitazione. Inizia la riunione, e un politologo liberale espone la sua tesi. Al Nord si ha un movimento che potrebbe trasbordare. La Lega ha un programma confuso che poteva arrivare fino alla separazione del Nord. Al Centro si ha un blocco politico inamovibile, quello della Sinistra. Al Sud, infine, si hanno due forze politiche – la Destra post-fascista e la Democrazia Cristiana meridionale – entrambe con un forte radicamento e legate alla spesa pubblica. Il paese non ha una forza politica che possa vincere al Nord e al Sud e in questo modo provare a tenere il paese unito. Tutti si guardano in silenzio. Correva allora voce che Berlusconi volesse «entrare in politica», e quel che era detto in quella riunione sembrava spiegare le ragioni (quelle raffinate, non quelle legate ai vecchietti che guardavano inebetiti i telegiornali di Emilio Fede) per cui avrebbe potuto avere successo.


Comunque sia, alla fine Berlusconi si presenta e vince le elezioni del 1994. Panico, in pochi mesi un partito appena fondato arriva a vincere le elezioni celebrate con tutti i crismi. Un partito che non ha una propria classe dirigente. La classe dirigente era composta dai sodali del premier e dai livelli minori dei partiti che stavano scomparendo, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista. Come faranno costoro ad affrontare i problemi dell'Italia?



Prologo. Il programma astratto e quello concreto


Il programma di Forza Italia era semplice: la fine dello statalismo, con ciò intendendo un minor intervento pubblico sul fronte delle uscite e delle entrate. Dunque un maggiore spazio alla «società civile». Un programma che si potrebbe definire «liberale».


Un centro di ricerca economica bolognese doveva pubblicare la previsione trimestrale. Come fare per simulare il programma di Berlusconi? Esso, preso alla lettera, migliorava visibilmente i conti pubblici. Bastava, infatti, simulare l’annunciata riforma choc delle pensioni che i conti pubblici in prospettiva sarebbero migliorati molto. Poiché i mercati finanziari anticipano il futuro, essi avrebbero chiesto fin da oggi dei minori interessi sul debito pubblico, a ragione del minor rischio che si sarebbe corso con il miglioramento futuro dei conti dello stato. E i minori oneri finanziari miglioravano fin da subito i conti dello stato.


Ne veniva fuori che un tal Silvio Berlusconi salvava i conti pubblici fin dal suo esordio e, in un certo senso, senza colpo ferire. Una sorta di riedizione dell'«Uomo della Provvidenza». Era verosimile? In astratto, probabilmente sì. In concreto, probabilmente no. Qualunque programma choc migliora i conti pubblici, se calato in astratto in un modello econometrico.


Il mondo reale è però fatto di cose che si possono praticare e non praticare. Che cosa fare allora, si simula l’astratto o il concreto? A simulare solo l’astratto il rischio è quello di fare della propaganda, a simulare solo il concreto il rischio è quello di non scovare i margini di miglioramento che si nascondono fra le pieghe delle cose. La decisione presa fu, alla fine, di presentare il Rapporto di previsione con la simulazione dello scenario astratto e concreto.


Qualche mese dopo, il governo Berlusconi si trovò in difficoltà, perché un suo alleato – la Lega – non accettava la riforma choc delle pensioni. Le pensioni sono in misura cospicua versate al Nord, dove si è avuta per decenni una base industriale che ha consentito ai salariati di cumulare le proprie pensioni. Dunque alla fine lo scenario «giusto» era quello concreto. Lo scenario astratto non era però un evento non verosimile, e, infatti, la riforma delle pensioni fu varata dal governo che seguì quello di Berlusconi.



Epilogo. Al Nord conviene la secessione?

 

In passato, quando la situazione del debito era ingestibile, si lasciava correre l’inflazione. Il debito pubblico era pagato alla scadenza al prezzo di emissione, e dunque in moneta corrente era pagato poco o niente. Le entrate pubbliche erano intanto salite molto, perché lo stato raccoglieva le imposte, che crescevano in termini nominali. All'incirca, è quello che è accaduto in Italia dopo la Seconda Guerra. S’immagini – e questa è la differenza fra allora e oggi – un mercato delle obbligazioni efficiente. Quest’ultimo brucerebbe i tentativi di salvare le cose con l’inflazione, perché chiederebbe dei rendimenti enormi alle aste. Il mercato efficiente salverebbe il risparmio delle famiglie. Inoltre, se i salari e le pensioni sono indicizzati, ecco che le spese pubbliche restano costanti. La politica, intesa qui come costellazione di forze, ha oggi il mercato delle obbligazioni efficiente e i redditi popolari indicizzati. Dunque manca l’arma invisibile dell’inflazione. Fare politica oggi è quindi più difficile. Resta oggigiorno, per portare sotto controllo il debito, una combinazione siffatta: 1) taglio delle spese, o riduzione della spesa tendenziale; 2) rialzo delle imposte, ma non necessariamente delle aliquote.


Non è evidentemente facile far passare queste manovre in un mondo dove si deve conquistare il consenso, e dove i gruppi organizzati sono diffusi e hanno peso. L’Italia ha un bilancio pubblico che ruota intorno al pareggio prima del pagamento degli interessi, ma ha un enorme debito pubblico e un’economia che cresce – ormai da anni – poco. Per far scendere il debito non subito, ma in molti anni, l’Ocse stima per l’Italia un saldo primario del 3%, un numero simile a quello del Fmi del 4%. In termini assoluti, il 4% sono una cinquantina di miliardi. Un numero da ricordare, come vedremo poi. Sui numeri complessivi si direbbe che le cose non sono mal messe, meglio, che non lo sono se viste in rapporto con quelle degli altri paesi. Neppure facendo delle previsioni sulla crescita delle pensioni l’Italia è mal messa. Secondo uno studio della Banca dei Regolamenti Internazionali, l’Italia è messa meglio degli altri paesi (il calcolo sulle pensioni è fatto mettendo a confronto gli impegni con i versamenti ad aliquote costanti).


L’Italia cresceva molto negli anni Cinquanta e Sessanta, poi negli anni Settanta e Ottanta ha incominciato a crescere meno. Negli ultimi due decenni ricordati è stato ampliato lo «stato del benessere» oltre le entrate fiscali. Lo «stato del benessere» è stato quindi finanziato dalla crescita del debito pubblico. La crescita degli ultimi due decenni succitati era aiutata dalla svalutazione della lira (prima, fino al 1971, si avevano i cambi fissi). Negli anni Novanta si è arrivati al dunque, quando è stata presa la (giusta) decisione di bloccare la crescita del debito pubblico e di rinunciare, entrando nell’euro, allo strumento della svalutazione del cambio per far «tornare i conti», ossia di smettere di usare il cambio per lubrificare una crescita dei costi industriali maggiore della crescita del prodotto per addetto. Il debito pubblico da allora non è più cresciuto.


Il nostro debito pubblico è «grosso» e «costoso», ma alla fine sotto controllo, sempre che non rialzino molto i tassi d’interesse in tutto il mondo. Sotto controllo, ma in grado di distogliere la spesa pubblica da altri impieghi, oppure capace di impedire la riduzione del carico fiscale.


Dunque dov’è esattamente il problema? La ripartizione dei carichi fiscali è «iniqua», nonostante la forte progressività delle imposte. Iniqua per l’evasione fiscale e per lo spreco di spesa pubblica. Si tenga conto che anche gli altri paesi hanno la loro bella evasione fiscale, e dunque il concetto è relativo. In termini assoluti, l’evasione italiana arriva a un quarto del reddito nazionale. Abbiamo poi lo spreco della spesa pubblica. Spreco legato al maggior costo dei servizi, in rapporto alla loro qualità in alcune aree rispetto ad altre. Si possono fare dei conti (o meglio, riprendere quelli di Luca Ricolfi).


Che cosa accadrebbe se l’evasione italiana fosse simile a quella degli altri paesi e se la spesa pubblica fosse efficiente? I conti sulla ripartizione della spesa per regioni devono seguire delle regole: 1) la spesa per la difesa, se l’esercito è in Friuli e non in Umbria, è per ragioni militari, e dunque va esclusa dal computo; 2) gli insediamenti pubblici, se un impianto o la sede legale è in una regione e non in un’altra, vanno esclusi dal computo; 3) le pensioni – se sono maggiori in Liguria è per l’effetto della popolazione anziana che ha versato i contributi quando c’era ancora un’industria ricca – vanno escluse dal computo; 4) gli interessi sul debito pubblico – le regioni ricche con un tasso di risparmio maggiore e con una popolazione anziana ricevono un maggior gettito cedolare – vanno esclusi.


Facendo tutti i conti, ossia concentrandosi sulla sola spesa discrezionale e stimando una riduzione dell’evasione fiscale, viene fuori che: 1) nel caso di assenza di solidarietà (ogni regione vive del reddito che produce), quelle meridionali riceverebbero dallo stato centrale 80 miliardi di euro in meno; e 2) nel caso di piena solidarietà (ogni cittadino riceve dallo stato quanto la media nazionale), le regioni meridionali riceverebbero dallo stato centrale 50 miliardi di euro in meno. Se si facesse un’analisi per regione singola, allora non tutte le regioni del Nord sarebbero «donatrici nette» e non tutte quelle del Sud «prenditrici nette». Ma i numeri alla fine sono largo circa questi. Tutti i paesi hanno aree più ricche e più povere, ma l’Italia registra delle differenze maggiori e soprattutto persistenti. La soluzione del «federalismo» suona bene, perché sembra un metodo che ribadisce la responsabilità, mentre include la solidarietà. Senza però dei paletti precisi – la punizione delle «cicale», ossia chi spende troppo e male nella propria regione deve alzare proprie imposte – il federalismo potrebbe non aiutare a spendere meno e meglio.


Da un punto di vista economico l'oggetto del contendere sono 50 miliardi di euro.



Epilogo. Una forza politica non localizzata


Si hanno due spinte, quella che vuole tagliare gli sprechi in molte regioni, la maggior parte delle quali è in Meridione, e quella che vuole governare il taglio degli sprechi, oppure non tagliarli. Berlusconi I aveva dalla sua la promessa potenziale di poter governare le spinte contrapposte, in quanto era l'unico partito nazionale. Berlusconi III si trova a governare con difficoltà queste spinte contrapposte. Il governo delle spinte contrapposte è difficile, e nessuno ha davvero idea di come le si possa governare. La polemica politica si sposta quindi su altri lidi.


S’immagini una spiaggia e un gelataio che arriva con il suo mezzo traballante. Dove si metterà? Esattamente in mezzo alla spiaggia. Infatti, se si mettesse a una delle due estremità, i villeggianti che stanno dalla parte opposta difficilmente andrebbero da lui. Se arrivasse un altro gelataio, dove si metterebbe? Potrebbe mettersi in mezzo, a fianco del primo. Ma i due gelatai possono contare di attrarre il massimo numero di clienti se si mettono l’uno nella prima metà della spiaggia e l’altro nella seconda metà della spiaggia. In questo modo, il primo avrebbe la sinistra e la destra della prima metà della spiaggia, il secondo avrebbe la sinistra e la destra della seconda metà della spiaggia.


Se il prodotto non è diverso, allora tutti traggono beneficio, trovando una disposizione spaziale che serve con la massima comodità tutti i clienti. S’immagini un sistema politico che serve dei prodotti che non sono diversi. Differiscono negli enunciati, non nella loro attuazione. I due gelatai-politici possono servire i gelati ognuno al proprio pubblico, oppure cercare di attrarre i clienti dell’altro. I clienti che possono essere attratti sono l'«elettorato instabile». Che cosa si può fare per attrarre i clienti dell’altro gelataio, pur offrendo lo stesso gelato? Mettere in dubbio la credibilità personale dell'altro gelataio.



Epilogo. Il programma astratto e quello concreto


Stanchi e sfiduciati dopo non essere riusciti a prevedere come si deve l’ultima crisi, i modelli econometrici attendono dei programmi politici da simulare che non siano Patria e Famiglia, oppure Equità e Merito.




Pubblicato il 14 dicembre 2010 su «Limes»:

http://temi.repubblica.it/limes/berlusconi-nel-mondo/17623