Dopo essersi liberate di Galatasaray e Paris Saint-Germain nei quarti di Champions League, Real Madrid e Barcellona si sono date appuntamento a Wembley per la finale del 25 maggio. In mezzo ci sono le semifinali, ma le due squadre iberiche hanno chiaro l’obiettivo: trasformare la finale nella cattedrale del calcio inglese nell’ennesima coronazione della superiorità calcistica spagnola. Se ci riuscissero, sarebbe solo l’ultima in ordine di tempo. Dal 2008 in avanti la nazionale iberica ha vinto tutto quello che c’era a disposizione: due europei e un mondiale. Tanto la classifica Uefa per club che quella Fifa per nazionali vedono la Spagna davanti a tutti. Il mondo intero invidia alla Liga spagnola i due giocatori più forti al mondo, Messi e Cristiano Ronaldo e, anche quest’anno, Barcellona e Real Madrid si sono confermate le due squadre più ricche del pianeta.

Dietro l’egemonia assoluta che dura da parecchi anni, si nasconde però una situazione economica ai limiti del collasso. Tanto per fare un esempio, Deportivo la Coruña e Valencia, due club simbolo del decennio dorato del calcio spagnolo, sono sull’orlo del fallimento. Negli ultimi nove anni, 19 delle 42 squadre che compongono i due campionati professionistici spagnoli sono finite in amministrazione controllata (un numero che sarebbe ancora più alto se venissero presi in considerazione anche i club nel frattempo retrocessi nelle leghe dilettantistiche). Oltre la metà delle società calcistiche europee amministrazione controllata è spagnola. E, stando alle cronache dei giornali, ogni volta che un commissario giudiziale si mette a spulciare nei bilanci di una squadra in difficoltà, spuntano commissioni sproporzionate e fatturazioni anomale. Un caso per tutti è quello del Racing di Santander, finito in amministrazione controllata dopo l’uscita di scena del magnate indiano Ahsan Ali Syed. A bilancio presentava un’uscita di 965mila euro per una scuola di calcio brasiliana. Una spesa quasi meritevole, se non fosse che questa fantomatica accademia del football verdeoro non è mai esistita.

Il debito complessivo della Liga è di 3,6 miliardi di euro, di cui 752 milioni con il fisco e circa la metà con le banche. Una situazione delicata per un Paese che ha appena ricevuto un prestito d’emergenza per ricapitalizzare i propri istituti di credito e che potrebbe avere presto bisogno di nuovi aiuti per sistemare le esangui casse statali. Questa contraddizione non è sfuggita ai rappresentanti della Bundesliga presso l’Uefa. Da tempo i tedeschi fanno pressione sul presidente Michel Platini per convincerlo ad applicare senza sconti le regole sul fair play finanziario alle squadre spagnole. Le tensioni tra le formiche teutoniche e le cicale spagnole ha sfondato anche le porte della Casa del calcio di Nyon, dopo quelle del Parlamento di Bruxelles.

In realtà qualche segnale di austerity è entrata nel calcio iberico già da qualche anno e solo i continui successi di Barcellona, Real e della nazionale hanno fatto sì che in pochi se ne siano accorti. Nel 2009 la spesa per l’acquisto di giocatori delle venti squadre della Liga raggiunse la cifra record di 452 milioni di euro. L’estate scorsa si è ridotta a 115 milioni, la più bassa registrata negli ultimi nove anni e, per la prima volta, meno di quanto non abbiano investito le squadre inglesi, tedesche, italiane, francesi e russe. Anche i salari delle stelle del calcio sono in contrazione: l’ingaggio medio è di 1,2 milioni l’anno, mentre nella serie cadetta è di 100mila euro, i dati più bassi tra quelli dei cinque grandi campionati (Premier League, Bundesliga, Serie A, Ligue 1 e, appunto, Liga).

Eppure, ci sono altri numeri che raccontano una realtà meno drammatica. Secondo il rapporto Football finance 2012 di Deloitte, il calcio in Spagna muove (compreso l’indotto) quasi 4 miliardi di euro l’anno. Quello spagnolo rimane il terzo campionato per giro d’affari, appena alle spalle della Bundesliga e davanti alla Serie A. In alcuni settori rappresenta un’eccellenza assoluta: i 190 milioni in merchandising incassati ogni anno non temono confronti e, anche se l’affluenza degli spettatori è in calo, i 511 milioni provenienti dai botteghini situano la Liga appena dietro la Premier League inglese. La ripartizione dei ricavi tra le tre macroaree principali (incassi da stadio, merchandising e diritti tv) è la più equilibrata del continente. Anche la differenza tra attivi e passivi di bilancio (-161 milioni) non si discosta molto da quella degli altri grandi campionati ed è anzi migliore rispetto ai numeri italiani, inglesi e francesi. La crisi che sta mettendo in ginocchio il sistema calcio spagnolo ha quindi altre cause, due soprattutto: l’enorme sperequazione di risorse tra i vari club e la crisi del sistema dei media, soprattutto quelli a pagamento, legati a doppio filo con il mondo del calcio.

Dei 1718 milioni fatturati nella stagione scorsa ben 996 milioni sono finiti nelle casse di Real e Barcellona (rispettivamente 513 e 483 milioni). Il fatto che le due squadre più tifate di Spagna registrino maggiori incassi al botteghino è inevitabile, così come non stupisce che le magliette di Messi vendano più di quelle degli attaccanti di Siviglia e Atleltico Bilbao. Meno comprensibile è il trattamento di favore che le due grandi ricevono dalle amministrazioni pubbliche. Il Real Madrid è appena stato messo sotto inchiesta da parte della Commissione europea alla concorrenza per un affare immobiliare sospetto consumato con il Comune. José María Álvarez del Manzano, ex sindaco di Madrid e Ministro della giustizia fino al 2011, avrebbe svenduto ai blancos i terreni necessari alla prossima ampliazione dello stadio del Santiago Bernabeu, quello in cui gioca il Real. Qualcosa di simile, ma con cifre nettamente superiori, era già accaduto a metà anni ’90, quando il Comune aveva acquistato dal Real l’ex cittadella sportiva del Paseo della Castellana. Dove un tempo si allenava la squadra della capitale, oggi sorgono i quattri principali grattacieli di Madrid, per un affare che ha fruttato al Real quasi 500 milioni di euro. Il più imponente di questi edifici è la Torre Bankia, il grattacielo più alto di Spagna e sede dell’omonimo istituto di credito che, fino all’anno scorso, è stato l’inesauribile forziere da cui attingeva il Real per finanziare le faraoniche campagne acquisti. Oggi Bankia non esiste più: nel giugno scorso ha dichiarato default mandando in collasso il sistema bancario spagnolo. Il groviglio politico-affaristico in cui è avvolta la squadra di Florentino Perez appare evidente ripercorrendo la storia del grattacielo: da un lato, l’affare della vendita dei terreni ha fornito al Real i capitali necessari a costruire una squadra di galacticos. Dall’altro, è stato proprio Perez, con la sua impresa Acs, a costruire la Torre Bankia e gli altri tre palazzi.

La seconda causa della sperequazione è il mercato dei diritti tv: per la sola Liga (escludendo quindi le competizioni europee) le due grandi di Spagna ricevono il 49 per cento degli introiti totali. Negli altri grandi campionati a spartirsi metà della torta sono sempre almeno cinque squadre. Non stupisce trovare le due grandi di Spagna in testa alla Football Money League, la classifica che misura le società più ricche al mondo. Il problema spagnolo è che, intorno ai due giganti, sono rimasti solo nani da giardino. A questo si aggiungono i problemi economici delle tv a pagamento: Canal+ (la cordata tra il gruppo editoriale de El Pais, Mediaset e Telefónica che trasmette su satellite) e Mediapro (digitale terrestre). Il gruppo satellitare lo scorso anno ha perso il 15 per cento dei propri abbonati, Mediapro addirittura il 25. E quest’anno l’emorragia si è aggravata a causa dell’aumento dell’Iva (dall’8 al 21 per cento) sulle tv a pagamento. La piattaforma digitale è sommersa dai debiti e da tempo ha smesso di pagare i diritti a molte delle società medio piccole. Le analogie con il fallimento del tedesco Kirch Group non mancano. Al momento di portare i libri in tribunale, il magnate tedesco lasciò un debito con le squadre della Bundesliga di 900 milioni di euro, mettendo in ginocchio le finanze delle società sportive. In Germania ci hanno messo dieci anni per riprendersi.

Il governo spagnolo ha annunciato a gennaio che varerà una legge per assicurare la vendita collettiva dei diritti tv, sulla scorta di quanto già avviene negli altri grandi campionati europei. Questo dovrebbe garantire una ripartizione più equa delle risorse, a scapito di Real e Barcellona. Viste le difficoltà dei due gruppi già presenti sul mercato, resta da capire chi potrà accollarsi l’onere di comprare tutto il pacchetto. In molti sussurrano il nome di Al Jazeera, che di recente ha chiuso un accordo simile in Francia e sembra sul punto di sbarcare anche in Italia. Nonostante i successi sportivi, il mercato del digitale spagnolo è però meno appetibile di quello italiano: Canal+ ha appena un terzo degli abbonati di Sky in Italia.

Eppure, una migliore ripartizione dei diritti è inevitabile se si vogliono riaggiustare i bilanci delle tante società medio-piccole in difficoltà. Altri salvagenti non ce ne sono: le banche che premono per rientrare dai tanti crediti e il governo che non può permettersi di concedere altri aiuti extra. Al massimo può proporre, come sta già facendo, una dilazione di pagamento a tassi agevolati dei tanti debiti con il fisco, una soluzione già provata in Italia nel 2005. Da allora, i bilanci delle società calcistiche sono lentamente migliorati, ma la Serie A ha perso il titolo di “campionato più bello del mondo”. Difficile che la Liga riesca ad evitare la stessa sorte.