L’india è il paese dei numeri. Comprensibile, visti i legami storici che vanta con l’algebra. Tradizioni a parte, qualunque viaggiatore si sia imbattuto in una conversazione con un indiano ha dovuto stare al gioco di quest’ultimo: «Quanti abitanti ha il tuo paese? Quante sono le città sopra gli enne milioni di abitanti? Quante sono le donne e quanti gli uomini?»
Questo è solitamente l’interminabile e incalzante “quarto grado” che fa divertire chi pone le domande (l’indiano) e che spiazza l’interrogato. Sarà perché il subcontinente è immenso e dai mille volti, quindi un qualsiasi conteggio è di ordinaria amministrazione, fatto è che agli indiani piace confrontarsi sulle cifre.
Bene, stiamo al loro gioco. Alla fine della scorsa settimana sono stati comunicati i risultati delle elezioni indiane. In 5 settimane, tra il 7 aprile e il 12 maggio, oltre 800 milioni di elettori si sono recati ai seggi per il rinnovo dei 543 membri della Lok Sabha (la camera bassa del parlamento indiano). Gli indiani votanti per la prima volta erano più di 100 milioni. I candidati erano oltre 8 mila. Mettendola così, il voto in India si piazza al primo posto tra i big event delle democrazie nel 2014.
D’altra parte è facile per gli indiani vincere se si gioca sulle quantità. Sul fronte della qualità, il discorso cambia. Per comprendere quanto accaduto a Delhi, ovvero per farne un’analisi economico-politica, questi numeri appaiono secondari. E ben altri meritano attenzione.
Il Partito del Congresso esce da queste elezioni con le ossa rotte. Non sono solo i 162 seggi persi a dirlo. Seggi che peraltro sono stati tutti fagocitati dalla coalizione vincente del Bharatiya Janata Party (Bjp). I risultati attestano quest’ultimo a 166 seggi. L’elettorato indiano ha rifiutato il cambio al vertice del Congresso. Se avesse vinto, il premier Mahmohan Singh avrebbe passato il testimone a Rahul Gandhi, figlio di Rajiv e Sonia, nipote di Indira. L’India questa volta non ha accettato di tornare sotto l’ombrello protettivo dell’antico e forse a questo o punto vetusto clan, che ha scritto pagine belle quanto torbide della sua storia post coloniale.
Non ha creduto alla professionalità del premier uscente Singh, che nei suoi 23 anni di impegno al governo – prima come ministro delle finanze, poi da leader dell’intero esecutivo – ha saputo portare comunque l’economia nazionale da una situazione di quasi-default a un costante stato di crescita. Nel 1991, seguendo i consigli del Fondo monetario internazionale, il ministro delle finanze indiano Singh abrogò i dazi doganali interni, che bloccavano i consumi ed erano fonte di una corruzione strutturale della classe dirigente. Da allora la crescita del Pil indiano è passata dal 3,5% (1991) all’oltre il 9% nel 2007. Il paese si è confermato così seconda potenza emergente del terzo millennio. Dopo la Cina. Ammesso che sia dell’India che della Cina si possa ancora parlare di realtà emergenti.
In controtendenza con l’immagine corrotta e nepotistica dell’establishment nazionale, Singh ha saputo preservare la propria reputazione, fatta di integrità, trasparenza e professionalità. I modi e l’aspetto anche semplicemente esteriore hanno fatto di Singh una specie di guru, ascoltato e stimato anche in occidente. Ma questo non è bastato perché il Congresso potesse restare alla guida del governo di Delhi. Nel momento in cui l’India si è resa conto che Singh, troppo in là con gli anni sarebbe sceso dalla plancia di comando, la volontà di invertire la rotta è apparsa inevitabile. Da mesi il premier uscente, che compirà 82 anni il prossimo 26 settembre, aveva reso nota l’intenzione di passare il timone a Rahul Gandhi. Infine, i sempre più negativi dati economici hanno inferto il colpo di grazia al Congresso.
D’altra parte, il desiderio di cambiamento che l’elettorato indiano ha espresso votando in massa il Bjp non va visto come un cambiamento economico. Il premier incaricato, Narendra Modi, ha già fatto capire che su questo fronte il suo governo batterà la strada della continuità. Lotta alla povertà, investimenti nelle infrastrutture, nuove politiche ambientali.
Lo slogan “Minimum government, maximum governance” con cui il Bjp ha vinto le elezioni riprende la strategia utilizzata da Modi quando era governatore dello stato del Gujarat. Una strategia fatta di privatizzazioni importanti a favore di specifici gruppi di potere. Gli osservatori prevedono che Modi poterà a Delhi questo progetto. I simpatizzanti del Bjp dicono che l’operazione del nuovo governo sarà realizzata all’insegna dell’efficienza. Ovvio.
Un giudizio più distaccato porta a osservare la scarsa differenza tra la strategia dell’esecutivo entrante e quella di Singh. L’India deve essere gestita da lobby e centri di potere dalle spalle larghe, capaci di arginare le masse interne e di mostrare i muscoli di fronte agli interlocutori stranieri. Il cambiamento sta nel turn over voluto dagli elettori. Questa leadership lobbistica gli indiani vogliono che non sia più targata Gandhi. La Bbc avverte che è prematuro, ma soprattutto antistorico scrivere un necrologio per la dinastia che praticamente da un secolo è al centro delle vicende politiche, economiche e scandalistiche indiane. In questo forse ha ragione il Guardian, che nel suo editoriale a commento della vittoria di Modi ha parlato di una necessaria “refashion” dell’India. Il termine manca di una traduzione letterale in italiano. Si potrebbe parlare di “rifarsi il maquillage”.
Il che lascia intendere che, con il Bjp, non ci sarà una vera e propria rivoluzione.
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