La strana coppia: Artur Mas, il moderato di CiU, e Oriol Jonquera, il massimalista di Erc. Per la prima volta insieme. Con ogni probabilità sarà questo il tandem che sosterrà il prossimo governo catalano, un monocolore di Convergencia i Uniò presieduto dal governatore uscente Mas e tenuto in vita con i voti della sinistra radicale di Esquerra Republicana. CiU è uscita dalle elezioni del 25 novembre fortemente ridimensionata (-8 per cento), ma detiene ancora la maggioranza relativa (anche se a 20 punti percentuali da quella assoluta che invocava durante la campagna elettorale).
Erc, il partito operaio della sinistra catalana, è sul punto di accettare un’alleanza che – in condizioni normali – i suoi elettori vedrebbero come fumo negli occhi. Mas avrebbe potuto accettare il corteggiamento dei socialisti, che si erano detti disposti a formare un governo di coalizione, ma sembra orientato a chiudere l’accordo con Jonqueras. L’accordo era atteso per venerdì notte, quando i due leader hanno trattato a oltranza. Ma la firma sul documento programmatico per la legislatura anacora non è arrivata. Mas non vuole accettare l’investitura a capo della Generalitat fino a che le due forze politiche non troveranno la quadra per un «accordo solido». Il perché l’ha spiegato Francesc Homs, il portavoce dell’esecutivo uscente: «Tutto sarà negoziabile in questa legislatura, ma non il referendum sull’autodeterminazione». Di qui la scelta di avere come alleato Erc, il partito con la vocazione indipendentista più chiara.
Paradossalmente, una spinta importante all’accordo tra le due forze secessioniste viene dal governo centrale di Mariano Rajoy: il ministro José Ignacio Wert ha presentato una proposta di riforma dell’istruzione che prevede la sostituzione del catalano come lingua veicolare nelle scuole e l’obbligo per la Generalitat di pagare collegi privati ai padri che vorranno educare i propri figli in spagnolo. I partiti catalani considerano la “ley Wert” un attacco contro la lingua catalana, e si sono ritrovati fianco a fianco nelle barricate contro la proposta di legge.
Nelle ultime settimane, l’esecutivo Rajoy ha deciso di accelerare sulla riforma, spingendo Mas tra le braccia di Jonqueras. Ma se su nazionalismo e autodeterminazione c’è grande sintonia tra i due partiti, sulle politiche economiche da adottare sono già iniziate estenuanti trattative. I consiglieri economici delle due forze sono al lavoro per concordare un memorandum d’intesa per la legislatura. Il 2013 sarà un anno di austerity draconiana per la Catalogna: la Generalitat è chiamata a ridurre il proprio deficit di almeno 4 miliardi di euro, più della somma degli ultimi due anni di politiche rigoriste, uno sforzo eccezionale in un periodo di grande fragilità. Il bailout di Catalunya Banc, il terzo istituto di credito della regione, sta facendo scricchiolare il sistema finanziario dalle fondamenta. Nonostante la recessione, l’inflazione è schizzata al 4,20 per cento, la più alta dell’ultimo quadriennio mentre per il 2013 il PIL dovrebbe contrarsi del 1,2 per cento. Il numero di disoccupati continua a crescere e ha raggiunto le 650mila unità (il secondo peggior dato di tutta la Spagna) mentre 25mila famiglie vivono grazie a un sussidio di 400 euro al mese. Ma il problema più grosso sono gli interessi sul debito regionale, cresciuti dai 919 milioni di euro del 2010 ai 2,3 miliardi attesi per l’anno prossimo.
Nel 2010, Mas aveva vinto le elezioni con un programma di tagli alla spesa corrente. Jonqueras rifiuta questa piattaforma liberista e conta di ridurre il deficit attraverso l’inasprimento della tassazione. Queste sono le principali proposte depositate da Erc sul tavolo del governatore: reintroduzione della tassa di successione (abrogata nel 2011 proprio da Mas), aumento della tassa sui redditi più alti, nuove imposte sulle costruzioni di grandi cubatura e una super-tassa sulle centrali nucleari. CiU si è detta disponibile ad aumentare la pressione fiscale, ma solo se questa verrà accompagnata dal proseguimento delle politiche di contenimento della spesa. Le prime schermaglie tra i due partiti si sono avute sulla mini-imposta di un euro sulle ricette mediche, voluta da CiU un anno fa e fortemente avversata da Erc. I negoziati proseguono, e il nuovo governo non vedrà la luce fino a che i due leader non avranno trovato un’intesa sulle prossime misure economiche. Esquerra ha dichiarato che non entrerà direttamente nell’esecutivo, ma ha già proposto a Mas una serie di consiglieri economici che dovranno affiancare gli assessori di Convergencia sulle riforme più dolorose.
Se sugli aggiustamenti fiscali i due partiti si danno battaglia, l’intesa sul referendum per l’autodeterminazione sembra più semplice. Lo stesso governatore ha anticipato che entrambi i partiti stanno cercando la road map internazionale da seguire a livello legale se - com’è nelle previsioni - il governo di Madrid impedirà di svolgere la consultazione. Il principale nodo da sciogliere riguarda la data limite entro cui indire il referendum. A parole, entrambi i partiti sembrano determinati a celebrarlo entro il termine di questo mandato, ma chi spinge per avere una scadenza certa è Erc, mentre Mas spinge per un accordo alcuna indicazione temporale, perché «non conviene mostrare ai nostri avversari le nostre carte anzitempo». In realtà, il leader di CiU sa che indicare un orizzonte temporaele certo alla consultazione equivarrebbe ad apporre una data di scadenza alla legislatura, dato che quasi certamente Esquerra ritirerebbe il suo appoggio a referendum avvenuto.
Intanto, le associazioni confindustriali e i poteri finanziari, silenti durante l’ultima campagna elettorale, si stanno interrogando sull’effettiva convenienza economica di una rottura con Madrid. Negli ultimi dodici mesi, il supporto per l’indipendenza è cresciuto fortemente all’interno della società catalana. L’elemento di rottura è stato il bailout della regione da parte del Fondo di liquidità delle autonomie gestito dal governo centrale. La Catalogna è tra le regioni più ricche ma, al contempo, è anche la più indebitata. Nel periodo pre-crisi, l’8,7 per cento del PIL regionale (oltre 2mila euro per abitante) finiva nelle casse del governo centrale per finanziare la spesa nelle regioni meridionali e occidentali, quelle più povere. Il deficit della regione di Madrid, che gode di un PIL pro-capite superiore rispetto a quello catalano, è di 3,1 punti percentuali in meno. Questo ha causato un brusco aumento del sentimento indipendentista nel ceto medio catalano, sublimato nello slogan “ci avete salvato con i nostri soldi”. Secessionisti della nuova ora che in larga parte votano CiU e che vengono definiti “indipendentisti di portafoglio” sia dalla stampa di Madrid, che dai sostenitori di Esquerra. Durante la sua campagna, Mas ha cercato di convincere gli elettori che solo recuperando la quota di prodotto interno lordo trasferita al governo centrale la Catalogna potrà rifinanziare il proprio debito a un costo ragionevole e tornare a crescere. Né Mas, né Erc hanno però sollevato il tema dei costi impliciti nella secessione. Una Catalogna indipendente dovrebbe aumentare la spesa corrente per finanziare i settori pubblici che oggi vengono gestiti direttamente dal governo centrale (ad esempio la difesa e molti rami dell’amministrazione). Secondo uno studio di JpMorgan, anche se Barcellona riuscisse a dimezzare la spesa per questi servizi, le uscite aggiuntive peserebbero per il 5,8 del PIL regionale, riducendo il saldo positivo di una possibile secessione ad appena il 3 per cento del PIL.
Inoltre, il 47 per cento delle esportazioni catalane (50 miliardi di euro su un totale di 105) è destinato ad altre regioni spagnole. Secondo l’Istituto di studi economici (Iee), in caso di una rottura con Madrid questa quota scenderebbe del 50 per cento. Anche gli scambi con Francia, Italia e Germania (i tre principali partner commerciali di Barcellona) nel risentirebbero, perché la Catalogna dovrebbe ricominciare l’iter per l’ingresso nel mercato unico europeo perdendo, per un minimo di 8 anni, i benefici sulla libera circolazione delle merci connessi all’adesione alla Ue. Questo provocherebbe un crollo del PIL catalano stimabile intorno al 20 per cento, che peserebbe soprattutto sul settore primario e su quello industriale.
Secondo l’analisi dell’Istituto di macroeconomia e finanza, la situazione più complessa riguarderebbe gli istituti di credito che perderebbero l’accesso al finanziamento della Bce, che per le banche catalane è stimato intorno ai 65,5 miliardi di euro l’anno. Inoltre, in termini assoluti la Catalogna è la regione con la differenza maggiore tra crediti erogati e depositi (+155mld). Il dinamico tessuto industriale catalano attira gli investimenti dal resto del Paese e ha accesso a un enorme mercato di capitali, nonostante il tasso di autofinanziamento sia di appena il 45 per cento rispetto PIL (contro il 74,09 per cento di Madrid). Questo avviene soprattutto grazie alle banche e le casse di risparmio catalane che possono contare su una struttura di raccolta depositi ramificata ben oltre i confini regionali. La sola Caixabank, il principale istituto di credito catalano, raccoglie oltre il 60 per cento dei depositi nel resto della Spagna. Secondo lo studio di Imf, in caso secessione questo flusso di denaro verso la Catalogna si arresterebbe e le banche catalane operanti in Spagna dovrebbero affrontare una fuga di capitali che verrebbe compensata solo in minima parte dall’analogo travaso di depositi dalle banche spagnole a quelle locali, all’interno territorio catalano. Una situazione che produrrebbe un ulteriore credit crunch, quando già oggi la regione fatica a reperire finanziamenti a tasso accettabile sui mercati internazionali. Uno scenario che potrebbe ulteriormente deteriorarsi a causa dell’instabilità politica derivante dal processo di secessione.
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