I mercati hanno reagito con scetticismo al piano di salvataggio del segretario al Tesoro, Henry Paulson, quando ancora pensavano che potesse essere approvato. Prima che il piano fosse annunciato, un paio di settimane fa, lo Standard & Poor’s era a 1.150 punti. L’altro ieri, alle 17.00, quando il piano sembrava sulla via dell’approvazione, si trovava appena sopra i 1.150 punti.


Poi il piano è stato bocciato ed il mercato, nel tardo pomeriggio, è andato ben sotto i 1.150 punti. Intanto che le azioni in queste settimane flettevano, i rendimenti delle obbligazioni statunitensi sono diventati negativi, ossia i rendimenti nominali sono diventati inferiori al tasso d’inflazione lungo tutta la curva, dai tre mesi fino ai trenta anni. Possiamo affermare che, negli ultimi tempi, il reddito variabile (le azioni) è evitato a favore del reddito fisso se d’origine statale (i titoli del tesoro), anche quando questo non rende nulla, tolta l’inflazione. Nel ciclo della “globalizzazione liberista”, dai primi tempi di Ronald Reagan ad oggi, abbiamo avuto la crisi del 1982, quella legata ai crediti delle banche statunitensi verso il Sud America e poi quelle del 1987, 1997, 1998, 2002, ed, infine, questa. Nello stesso periodo, dal 1982 al 2007, abbiamo avuto, nonostante tutte queste crisi, la più grande ascesa dei mercati azionari di cui si abbia memoria. Insomma, le crisi erano inghiottite dal movimento al rialzo. La domanda diventa: magari anche questa volta tutto finisce in fretta e bene?
 

I mercati salgono senza pentimenti quando i rendimenti delle azioni e delle obbligazioni sono alti. Essendo alti, alla lunga scendono, ossia diventano normali, e questo avviene con i prezzi che salgono. Una condizione che oggi non è data, le azioni hanno negli Stati Uniti (ma non nell’Europa continentale) un rendimento basso così come le obbligazioni. Possiamo dire che questa crisi scoppia con i mercati statunitensi delle azioni e delle obbligazioni cari. Se la situazione non è molto favorevole, abbiamo bisogno di un sismografo per sapere quando il peggio finirà. Possiamo immaginarlo così: 1) il tasso che le banche chiedono per prestare il denaro alle altre banche, tasso che oggi è pari a sei volte (sic) il livello dei tempi normali, deve scendere; 2) il rapporto prezzo delle azioni in rapporto all’utile deve scendere, dal livello di 20 verso un livello di 15 negli Stati Uniti; in Europa continentale questo rapporto si trova già sotto; 3) i rendimenti delle obbligazioni devono salire, perché la fuoriuscita dalla tana sicura del Tesoro è il segno della fine del panico. Fino a quando il nostro sismografo mostra tassi interbancari alle stelle, rapporti fra prezzi ed utili superiori a venti volte, e rendimenti delle obbligazioni negativi in termini reali, saremo in mezzo ai sommovimenti. La tesi è che questa crisi è complessa nella sua soluzione. Si consoli chi ha i propri denari in euro. L’euro, insieme allo yen, è la moneta più solida, in mezzo alla tempesta, per comprare, beninteso avendo prima guardato il sismografo, le azioni e le obbligazioni proprie ed altrui.
 

 Intanto che osserviamo il percorso del piano di salvataggio di Paulson, prima bocciato e poi forse verso la fine di questa settimana approvato, non possiamo dimenticare che gli Stati Uniti hanno una bilancia dei pagamenti correnti in disavanzo, ossia che “importano” flussi finanziari per bilanciare il loro deficit. Questi flussi arrivano dai Paesi emergenti industriali e petroliferi. I flussi finanziari, non arrivano dal settore privato dei Paesi emergenti, bensì dal loro settore pubblico, dalle banche centrali e dagli organismi che esse controllano. Fin qui la cosa è risaputa. Meno noto è un altro aspetto del complesso mondo dei flussi finanziari in entrata ed in uscita. Il settore privato estero ha smesso di comprare le obbligazioni emesse dai soggetti privati negli Stati Uniti. Gli acquisti da parte del settore estero si concentrano ormai sui titoli di Stato. Un fatto grave, perché segnala la mancanza di fiducia nei confronti degli strumenti del debito privato (come sono appunto le obbligazioni emesse dai privati) degli Stati Uniti. Questo comportamento mostra che si pensa che lo Stato sia sempre in grado di pagare il proprio debito, a differenza dei privati. Non molto tempo fa alcuni sostenevano che il deficit con l’estero statunitense non rilevava, perché il resto del mondo lo avrebbe sempre finanziato. La qualità finanziaria degli Stati Uniti era tale, si sosteneva, che ai cinesi conveniva vendere le proprie merci e poi comprare le obbligazioni americane. I “vantaggi comparati” erano felicemente all’opera: i cinesi facevano quel che sapevano fare meglio (i beni fisici) e gli statunitensi quel che sapevano fare meglio (la finanza). Oggi pochi direbbero queste cose, mentre, nervosi, attendono che il mondo politico approvi il piano di Paulson.
 

Pubblicato su L'Opinione il 1 ottobre 2008