Continuiamo a raccontare la battaglia delle idee negli Stati Uniti. Al solito, proponiamo i link per l'approfondimento. Questa settimana riportiamo il dibattito sulla perdita di credibilità.


Mentre l’amministrazione Obama presenta le nuove regole per i mercati finanziari (1) e mette mano – una mano preoccupata (2) – alla riforma sanitaria, i commentatori continuano a interrogarsi sul futuro del modello americano e, in senso lato, del capitalismo.
 
Il premio Nobel Joseph Stiglitz ha scritto un articolo su «Vanity Fair» (3) per spiegare che l’eredità negativa della crisi è ben più imponente e globalizzata di quanto non si pensi. «Perché, si chiedono le persone del Terzo mondo, gli Stati Uniti stanno usando per se stessi una medicina diversa da quella che hanno usato per noi?» – è la domanda che solleva Stiglitz.
 
Dopo aver esportato il modello americano del libero mercato in giro per il mondo – spiega il premio Nobel –, l’America sceglie di curarsi invertendo il rapporto d’equilibrio tra stato ed economia, finendo per assomigliare a quel che il Terzo mondo era prima della cura statunitense – basti pensare all’Est dell’Europa. Se al fardello si aggiunge il debito enorme che questa medicina comporta – un debito che riguarda il mondo intero, visto che parte di esso è in mano a investitori stranieri –, lo sconcerto globale diventa una cosa certa.
 
Quale può essere la conseguenza? C’è sempre stato «un senso di valori condivisi» tra l’America e le élites mondiali educate all’americana – scrive Stiglitz –, ma la crisi economica ha sfasciato la credibilità di queste élites: «Abbiamo dato ai critici che si sono opposti alla licenziosa forma di capitalismo dell’America molte munizioni per predicare una più ampia filosofia contraria al mercato. E continuiamo ad aggiungerne». Come dicono saggiamente le nonne, non c’è miglior lezione dell’esempio, e, se l’America reagisce alla crisi diventando più «socialista» (sempre in una visione americana, naturalmente), è evidente come chi socialista lo è (davvero, per formazione) possa avere qualche tendenza a tornare al suo modello.
 
La conclusione è lapidaria e tremenda: «La crisi economica, creata in gran parte dal comportamento americano, ha danneggiato valori fondamentali come la democrazia liberale e l’economia di mercato più di quanto abbia mai fatto una qualsiasi dittatura».
 
Stiglitz è entrato a far parte del giro degli economisti «pessimisti», quelli che pensano che la risposta dell’amministrazione Obama sia inadeguata, in contrapposizione a George Akerlof, che nel 2001 ricevette con lui il Nobel e che oggi milita nell’ascoltatissima (dal presidente) truppa dei behavioural economists (4).
 
Nel campo dei difensori del modello americano e della sua certa sopravvivenza, si pone, invece, Richard Posner, ex giudice di corte d’appello nominato da Reagan, generalmente definito conservatore e vicino ai Chicago Boys di scuola friedmaniana. Posner ha scritto un libro – A Failure of Capitalism. The Crisis of ’08 and the Descent into Depression – in cui mette sul banco degli imputati non il capitalismo, bensì chi avrebbe dovuto monitorarlo, primo fra tutti l’ex governatore della Fed Alan Greenspan («con lo “sventurato” ex presidente George W. Bush»). Posner rifiuta l’ipotesi che siano state l’«avarizia» e la «stupidità» a generare lo choc di settembre: avarizia è parola sempre messa tra virgolette, «qualunque cosa essa significhi», e la stupidità non c’è stata, tutti sapevano bene che cosa stavano facendo. Chi invece non ha fatto quel che doveva è stato il controllore massimo Greenspan. Il capitalismo, quindi, non deve essere messo in discussione – scrive Posner – perché le sue premesse, come quella sulla razionalità delle decisioni degli individui, non sono state spazzate via dalla crisi. Semmai i controllori avrebbero dovuto contenere i danni di bolle che «inevitabilmente scoppiano». Chissà quale lezione avrà il sopravvento nel mondo europeo e ancora più in là, a est, dove la crisi sta dando il peggio di sé.




(1) http://www.nytimes.com/2009/06/17/business/17regulate.html?_r=1&hp

 

(2) http://www.tnr.com/politics/story.html?id=55e79b52-4029-4af5-b08c-acb599d600b7

 

(3) http://www.vanityfair.com/politics/features/2009/07/third-world-debt200907

 
(4) L’economia dei comportamenti ha due facce. La prima è scientifica: essa cerca di dare ragione della difformità dei comportamenti effettivi da quelli previsti dalla teoria – e la discussione durerà anni. La seconda è politica: se si dimostra che il mercato, lasciato libero, non produce comportamenti che portino all’equilibrio, allora il potere politico è legittimato a intervenire. Resta aperta la domanda che possiamo etichettare come «libertaria»: perché mai i politici dovrebbero essere mondi dai condizionamenti psicologici che affliggono i comuni mortali?