Paul Samuelson parla poco, ma quando lo fa è impareggiabile. L’ultima intervista, rilasciata a Conor Clarke dell’«Atlantic» (1), è un capolavoro. Prima di tutto, c’è l’ironia che soltanto un economista premio Nobel di 94 anni – novantaquattro! – può permettersi: Samuelson lo sa e ci sguazza, definendo per esempio «noiose note autobiografiche» i suoi studi all’Università di Chicago o i meeting alla Federal Reserve con Milton Friedman.
Ma l’espressione che più colpisce è quella che usa per caratterizzare il suo pensiero: «Sono un cafeteria Keynesian», un keynesiano da caffetteria. Spiega: «È come per un cattolico da caffetteria. Posso andare a messa tutte le settimane, e così sono un buon cattolico, ma non regolo le dimensioni della mia famiglia nel modo in cui il Papa vorrebbe». Cioè, Samuelson prende dal keynesismo quel che più gli sembra utile e attuale per spiegare la realtà. Del resto, è stata la sua mania (e fortuna) quella di coniugare la teoria keynesiana con quella neoclassica, con l’intenzione di creare una struttura teorica valida nella maggior parte delle situazioni. Spiegando perché a un certo punto la dottrina keynesiana ha mostrato di essere fallace – ossia quando gli investimenti in spesa pubblica hanno smesso di produrre crescita –, Samuelson semplicemente dice: «Quando il re muore, devi farne un altro. Indovina chi?». Era l’inizio, al termine degli anni Settanta, dell’ascesa di Friedman. Del teorico del liberismo Samuelson dice: «A essere sincero, sono stato in buoni rapporti con Milton per più di sessant’anni. Ma ci sono riuscito evitando di dirgli esattamente quello che pensavo di lui. Era un libertario al limite della follia». I loro incontri nel board della Fed devono essere stati meravigliosi, visto che Samuelson ammette candidamente che non si sono mai trovati d’accordo su nulla, se non quando l’economia cominciava a crescere o cominciava a rallentare: «Nel mezzo non potevamo essere più lontani: lui voleva una macchina che sputasse fuori moneta allo stesso identico ritmo del tasso di crescita».
È l’eterno scontro tra l’iper-razionalizzazione del sistema, tipica dei libertari, e l’iper-personalizzazione tipica dei behaviouralists, che fanno dipendere tutto dai comportamenti irrazionali degli individui. Ma, al di là degli approcci, un responsabile della crisi Samuelson lo individua, ed è – chi altro? – Alan Greenspan. Un personaggio anch’egli con il tarlo del liberismo. Di più, un «Ayn Rander», un seguace di quell’anarco-capitalista autrice (2) dell’immenso Atlas Shrugged (3). «Puoi togliere il ragazzo dal suo mito, ma non puoi togliere il mito dal ragazzo» – dice Samuelson parlando di Greenspan. Deve aver avuto delle istruzioni, forse scritte sul muro: «Niente che provenga da questo ufficio può portare discredito al sistema capitalista. L’avidità è cosa buona».
Gli eccessi del sistema, causati da una visione libertaria del mondo, sono per Samuelson una piaga difficile da curare. Ma le bolle comunque arrivano, così come l’inflazione prima o poi, perché la macroeconomia non è una scienza esatta. La si può studiare bene – e i testi che dimenticano di parlare della «trappola della liquidità» (4) non sono buoni manuali di studio, come quelli dell’economista-professore di Harvard Greg Mankiw, che però smentisce (5) –, ma ci sono sempre margini di imprevedibilità.
Pare di sentir parlare il guru di Obama, Larry Summers, che dice più prosaicamente «shit happens». Summers, tra l’altro, è nipote di Samuelson; ma il novantaquattrenne rifiuta ogni relazione con lui: «È bravissimo, ma non ha mai seguito un mio corso all’università», precisa. «Tra di noi c’è come una muraglia cinese», ironizza, la stessa che fa credere a Summers di poter alzare la voce con Pechino quando Samuelson invita alla cautela: nel lungo periodo, anche i cinesi si stuferanno dei nostri eccessi, e soprattutto del nostro dollaro.
(2) http://www.youtube.com/watch?v=7ukJiBZ8_4k
(3) http://www.amazon.com/Atlas-Shrugged-Ayn-Rand/dp/0451191145
(4) http://it.wikipedia.org/wiki/Trappola_della_liquidit%C3%A0
(5) http://gregmankiw.blogspot.com/2009/06/defamation.html
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