In un mondo dove tutto è possibile – il mondo ideale – se il prezzo del petrolio sale, si molla l’auto in garage e si prende la bicicletta. Oppure, si usa come prima l’auto, ma non si va in pizzeria. Il livello dei consumi resta invariato. Nel mondo reale, invece, quando il prezzo del petrolio sale, i consumi si contraggono. Quando il maggior prezzo del petrolio spinge l’inflazione di un punto percentuale, il consumo di beni non durevoli resta quasi invariato – flette di un punto e mezzo rispetto all’andamento che avrebbe avuto in assenza di crescita del prezzo del petrolio. Il che è nella direzione del mondo ideale. Invece, si riducono molto – intorno a sei punti percentuali rispetto all’andamento che avrebbero avuto in assenza di crescita del prezzo del petrolio – gli acquisti di beni durevoli, come gli elettrodomestici e le automobili. Il che non è nella direzione del mondo ideale. I numeri sono quelli degli Stati Uniti (1).


Si può immaginare che i consumatori congelino l’acquisto di un bene durevole, nell’attesa di capire quanto costerà in futuro l’energia per farlo andare. Che è come dire che i consumatori non riescono a credere a priori che l’ascesa del prezzo del petrolio possa essere un fatto temporaneo. Un indizio lo si ricava osservando come reagiscono i consumatori, se intervistati. Quando il maggior prezzo del petrolio spinge l’inflazione di un punto percentuale, l’indice del sentimento dei consumatori, quello che misura la fiducia, flette di ben quindici punti percentuali.
 
Insomma, i consumatori – se per moto proprio o perché influenzati dalla stampa e dalla televisione, non sappiamo – prendono sul serio il petrolio. E per tramite loro – ossia per effetto della riduzione dei consumi – anche l’economia prende sul serio il prezzo del petrolio. Hanno ragione o torto? Passiamo ad analizzare le crisi petrolifere maggiori per entità e durata (2).
 
La crisi di Suez del 1956 provocò una contrazione dopo un mese della produzione nel Medio Oriente (come percentuale di quella mondiale) del 10%, e del mondo (incluso il Medio Oriente) dell’8%. La produzione nel Medio Oriente tornò (come percentuale di quella mondiale) al livello precedente la crisi dopo otto mesi, ma quella del mondo tornò al livello precedente la crisi dopo quattro mesi.
 
La crisi dello Yom Kippur del 1973 provocò una contrazione dopo due mesi della produzione nel Medio Oriente (come percentuale di quella mondiale) e del mondo (incluso il Medio Oriente) dell’8%. La produzione nel Medio Oriente e del mondo ancora dopo un anno non tornò al livello precedente la crisi, e rimase sotto del 5%.
 
La crisi iraniana del 1978 provocò una contrazione dopo tre mesi della produzione dell’ex Persia (come percentuale di quella mondiale) del 7%, e del mondo del 4%. La produzione nel mondo tornò al livello precedente la crisi dopo sei mesi, e quella iraniana (come percentuale di quella mondiale) rimase sotto il livello precedente la crisi del 2% anche dopo un anno.
 
La crisi generata dalla guerra fra Iran e Iraq del 1980 provocò una contrazione dopo tre mesi della loro produzione (come percentuale di quella mondiale) del 7%, e del mondo del 4%. La produzione di Iran e Iraq non tornò (come percentuale di quella mondiale) al livello precedente la crisi nemmeno dopo un anno, rimanendo sotto del 2%, proprio come quella del mondo, che non tornò al livello precedente la crisi nemmeno dopo un anno, e rimase sotto del 7%.
 
I numeri ci dicono che le crisi petrolifere di Suez e della rivoluzione iraniana sono rimaste locali. La crisi del Kippur e quella della guerra fra Iran e Iraq non sono state digerite in pochi mesi, ma non sono nemmeno state seguite da una produzione devastata a livello mondiale. Si potrebbe perciò concludere che le crisi fino a oggi sono state digerite. Quanto accaduto potrebbe non ripetersi, ossia non essere vero per il futuro, perché si può obiettare che in passato si aveva una maggiore disponibilità di petrolio rispetto alla domanda.
 
La Libia produce meno di due milioni di barili al giorno, su una produzione mondiale superiore agli ottanta milioni di barili. Non è poco, ma nemmeno un gran che. Tutto bene quindi? Sì, a condizione che l’Arabia Saudita stia fuori dai mutamenti in corso. Tutti possono ridurre la produzione e quindi far alzare i prezzi, ma solo l’Arabia Saudita può alzare la produzione per farli scendere. L’Arabia Saudita governa il prezzo del petrolio. La crisi in corso nel mondo arabo dovrebbe avere degli effetti temporanei sul prezzo del petrolio, a meno che non sia coinvolta l’Arabia Saudita.  


Prima di comprare una lavastoglie, ci si informi sulla successione a re Abdullah. Peccato che il Cremlino dei tempi sovietici era più trasparente di Ryiad (3).

  

(1) http://www.econbrowser.com/archives/2008/12/the_oil_shock_a.html
 
(2) http://dss.ucsd.edu/~jhamilto/oil_history.pdf
 
(3) http://www.centroeinaudi.it/ricerche/dall-egitto-alla-turchia.html

 
Pubblicato su «Limes»:

http://temi.repubblica.it/limes/la-libia-e-noi-storia-delle-crisi-petrolifere/20615