Al Centro Einaudi si è tenuto un incontro sulla «crisi araba». Riporto – nella mia interpretazione – quanto detto da G.S. Frankel, il relatore, e da P.G. Monateri.
«Sovrano è colui che governa in stato di eccezione». In stato di eccezione – quando sono sospese le regole normali del convivere – in Egitto ha governato l’esercito. È la polizia che ha attaccato la folla, non l’esercito. Man mano che l’esercito mandava segnali di non intervento militare, ossia mandava segnali di un diverso intervento politico, la folla si adunava e la polizia si ritirava.
Avesse aperto il fuoco, sarebbero andati in piazza solo quelli che hanno una grande propensione al rischio – le avanguardie, che accettano il gioco di un rendimento alto (la possibile caduta del regime) con un rischio alto (il farsi sparare). Le folle, le masse popolari, arrivano quando il rendimento è alto (la probabilità di caduta di un regime è alta) e il rischio (il farsi sparare) è basso.
Che le masse arrivino in piazza scambiandosi messaggi al telefonino invece di adunarsi seguendo il salmodiare dei muezzin, come accaduto in Iran nel 1979, non è l’aspetto più significativo della vicenda. Una rivolta laica usa il telefonino, sempre che sia stato inventato da molto tempo e perciò venduto a prezzi bassi.
Perché l’esercito non ha sparato? Probabilmente perché ha ritenuto che il ciclo politico di Mubarak fosse terminato. Si noti che Mubarak non è scappato come Rezha Palevi nel 1979, ma è rimasto in Egitto. Il messaggio è che il ricambio è stato deciso dall’esercito, di cui Mubarak è stato un esponente. Ora inizia la transizione. Un altro militare nella tradizione di Nasser, Sadat, Mubarak? Oppure una soluzione simile a quella della Turchia degli ultimi dieci anni: un partito dichiaratamente islamico che erode lentamente il potere dell’esercito, garante dell’ordine laico, ma che non islamizza in modo totalitario – una sorta di democrazia cristiana?
L’esercito egiziano dipende – da quando l’Unione Sovietica è stata estromessa dall’Egitto – dal finanziamento e dai pezzi di ricambio statunitensi. Non è quindi in grado di fare la guerra a Israele, perché non potrebbe usare l’aviazione. È perciò ragionevole pensare che Obama abbia, alla fine, appoggiato la soluzione della continuità dell’esercizio militare del potere. Non c’era alternativa, e comunque l’esercito egiziano non può procurare danni a Israele. La propaganda è sempre sul versante del «buonismo» e non del realismo politico e perciò Obama ha parlato con commozione di «giovani, democrazia, eccetera».
Un’uscita islamico-totalitaria è poco probabile, perché è difficile che i Fratelli Mussulmani possano accedere al potere. Le due uscite perciò sono: 1) ancora l’esercito, 2) un islamismo non totalitario. Che siano le più probabili lo si può arguire e dalla tradizione politica egiziana – i Fratelli Mussulmani finiscono normalmente in galera – e dal basso profilo di Obama. Non ha mai detto che «la nostra Civiltà è in pericolo» e non si è vista alcuna portaerei al largo di Alessandria.
La crisi egiziana mette in discussione l’ordine prevalso dopo la Seconda Guerra – l’uscita del Vicino Oriente dal colonialismo inglese e francese con l’ingresso nell’area di influenza statunitense. Il quale ordine statunitense sostituì quello fra le due Guerre, che ruotava intorno all’asse inglese e francese, che, a sua volta, aveva sostituito l’Impero Ottomano. Quell’universo cosmopolita cadde sostituito dalla Turchia di Ataturk.
La Turchia da qualche tempo si sta muovendo. Cerca di formare un mercato comune con la Siria, il Libano e la Giordania. Essa potrebbe col tempo diventare il centro politico dei paesi che una volta erano governati dalla Sublime Porta. Il panarabismo – il tentativo negli anni Sessanta di Nasser di unire i paesi arabi – potrebbe essere sostituito dal ritorno della Turchia. I Bric (Brasile, Russia, India, Cina) e ora anche la Turchia e il Sudafrica (Bricts, ma così è uno scioglilingua) sono le potenze emergenti del «Nuovo Ordine Non Occidentale». Ciascuno di questi paesi ha un «bacino naturale». Quello turco – non certo minore – è nel Vicino Oriente e nei paesi turcofoni, già facenti parte dell'Urss. La prossima partita si gioca con la successione al trono in Arabia Saudita, della quale si sa nulla, forse meno di quanto si sapesse intorno a quanto accadeva fra le mura del Cremlino.
In conclusione, gli Stati Uniti hanno un peso minore di quello che avevano poco tempo fa – soprattutto nel decennio successivo alla caduta dell’Unione Sovietica, mentre l’Europa si interroga sugli effetti del «multiculturalismo», ossia dell’integrazione semi-fallimentare dei mussulmani. Intanto sta nascendo la potenza turca. È ormai molto difficile che la Turchia voglia entrare nell’Unione Europea, potendo meglio trattare come potenza esterna. L’Iran, dal canto suo, non ha ceduto alle pressioni per rinunciare alla potenza nucleare. L’Egitto – già silente architrave dell’ordine del Vicino Oriente – deve trovare un nuovo equilibrio.
Passando ai ragionamenti economici e finanziari, la Turchia, come potenza regionale emergente, merita di essere studiata.
Riceviamo da una lettrice, esperta di politica estera, quanto segue:
L’esercito non ha sparato. L'esercito però non ha sparato nemmeno ai manifestanti pro Mubarak scagliati nelle vie dai sostenitori del regime. Nelle piazze, l'esercito è apparso il sostenitore benevolo e assente di qualunque cosa, facendosi abbracciare e fotografare da chiunque. Il ruolo reale dell’esercito nella vicenda di piazza resta oscuro. La sparizione della polizia/riapparizione della polizia che ha agito come il poliziotto – è il caso di dirlo – cattivo potrebbe essere un gioco delle parti.
L’esercito ha mollato Mubarak. L'esercito non era contentissimo della successione di Gamal, né di tutta la trasformazione graduale di Mubarak da socialista non allineato, che dopo la presa di potere ha mantenuto il modesto appartamento che aveva, in satrapo orientale con famigli, conti in Svizzera e villoni a Sharm. Suleiman è rappresentante della classe laico-militare, e fin dall’inizio veniva dato come il candidato preferito dall’élite. Viene il dubbio: oggi in Egitto sono tutti contenti di essere governati da un direttorio militare con la Costituzione sospesa, sembra quasi che l’unico problema fosse mandar via Mubarak. Turbe da piazza araba che commette il parricidio rituale, o una mossa dell’esercito per impedire a Gamal di consolidarsi?
Perché l’esercito non ha sparato? Perché il dilemma se sparare al proprio popolo è IL dilemma di ogni dittatore. Tutte le tecniche delle rivoluzioni di piazza degli ultimi anni, a cominciare da quella «arancione» a Kiev nell’autunno 2004, scommettono sull’incapacità del dittatore di farlo, a costo di perdere il sostegno internazionale e interno. La propensione al rischio di chi organizza questo tipo di bracci di ferro è altissima, ma in fondo è una situazione win-win: se il dittatore cede, come di solito cedono i regimi indeboliti e dipendenti dall’estero (infatti la Cina e la Bielorussia non hanno ceduto, mandando una i carri armati e l’altra più modestamente i poliziotti con i manganelli), è vittoria; se il dittatore dà di matto si rovina tutta la vita successiva e quindi finisce come sopra. Mubarak ci ha pure provato, ribaltando lo scenario inevitabile e scagliando in piazza i suoi sostenitori a rischio di una guerra civile, rischio che un esercito non corre mai.
Aviazione: nessuna dipendenza può impedire agli aerei egiziani di bombardare Israele, almeno una volta, se gli viene il ticchio. Semmai bisogna guardare alla mediazione degli americani, e all’immediata conferma da parte del nuovo governo militare degli accordi con Israele, condizione sine qua non sia di Gerusalemme che dell’Amministrazione. La Casa Bianca è stata abbastanza nella scia degli eventi, ma è evidente che avesse appoggiato il passaggio di potere ai militari sia nella sua versione «abbasso Mubarak» che nella versione «teniamoci cauti».
Fratelli mussulmani: non sappiamo che impatto reale possano avere, in quanto in Egitto non si sono mai tenute elezioni libere. Alle precedenti parlamentari avevano avuto un ottimo risultato come indipendenti, ma resta il sospetto che fossero stati promossi da Mubarak medesimo come dimostrazione all’Occidente che lui era l’unico baluardo anti-islamismo. Tesi leggermente contorta per un dittatore rimbambito, ma tutto è possibile. In tutte le realtà post-coloniali e post-laiche i radicali hanno sempre alla fine prevalso, salvo venire bloccati come in Algeria. L’espansione demografica, l’urbanizzazione selvaggia, la diffusione di un’istruzione di base insieme alla sparizione di forme di imbrigliamento alternative (partito unico laico nazionalista piuttosto che sinistre) ha prodotto lo stesso risultato in Iran, a Gaza, in Algeria. L’obiezione che i Fratelli egiziani non sono così forsennati è fondata, in parte, sulla loro storia e sul loro comportamento nella semi-clandestinità, ma una volta che diventano forza pubblica, essendo già l’unica organizzata nell’opposizione, il rischio di un Hamas bis è troppo alto. A meno che i militari non abbiano intenzione di rimetterli dov’erano, cioè in galera.
Islamismo non totalitario. L’esperimento turco, anzi, nello specifico l’esperimento Erdogan, è ben lontano dalla conclusione, e per ora non ha potuto espandersi in pieno proprio grazie (non riesco a dire «per colpa») dei militari golpisti kemalisti. Gli osservatori della Turchia temono molto una deriva islamista, risvegliata dalla «Dc» di Erdogan. Finora un islamismo moderato (politicamente) è stato praticato con un certo successo solo in Marocco e in Giordania, non a caso due monarchie della cui legittimità di discendenza dal profeta nessuno ha mai dubitato.
Neo-ottomanismo. Sulla questione c'è molto dibattito, anche all’interno della Turchia stessa. La teoria dell’attuale ministro degli Esteri Davoglu ha portato a qualche risultato nella mediazione (bocciata peraltro dall’Occidente) con l’Iran, in Siria e nei Paesi ex sovietici. Il caso egiziano ha spinto molti commentatori turchi a dire che l’espansionismo neo-ottomano era prematuro, e che Ankara non era in fondo abbastanza forte da accollarsi veramente l’ex impero. Il neo-ottomanismo ha una logica commerciale ed economica, politicamente – come si è già visto nel caso della nave dei «pacifisti» turchi – porta inevitabilmente a un’asse anti-occidentale, anti-americana e anti-israeliana. Se perseguito fino in fondo, rischia di diventare la vera grana per tutti noi. A condizione di superare qualche problema di concorrenza: non è chiaro fino a che punto il Maghreb vorrà veder tornare «li turchi», e non è chiaro quanto gli sciiti su cui punta l’Iran accetteranno la Mezzaluna sunnita. E sicuramente né la Russia, né gli Stati Uniti, né Israele (e a questo punto l’Europa sarà libera di dare sfogo al risentimento anti-turco) vorranno vedere un ritorno della Sublime Porta.
© Riproduzione riservata