Questa settimana ci soffermiamo ancora sul cambio del dollaro verso l'euro, ancora sull'ascesa delle azioni statunitensi, e ancora sulle tensioni in Medio Oriente. Vi sono, infatti, delle novità che vanno integrate con le analisi fatte in precedenza.
– il dollaro e la paura del Populismo
Come abbiamo mostrato nella terza parte di questo lavoro (1), il dollaro, da che era al centro delle attenzioni dei gestori, è stato ultimamente detronizzato. In passato, ossia fino a un paio di anni fa, il dollaro era comprato per l'aspettativa che i rendimenti negli Stati Uniti sarebbero stati molto più alti di quelli europei (2). Poi è stato comprato non per il differenziale di tasso, ma come protezione dal rischio che si sarebbe corso se Populisti fossero dilagati in Europa. Da quando questi ultimi hanno visto frenare la loro ascesa – in Austria, in Olanda, e in Francia - le posizioni “scoperte” sull'euro - quelle dove si guadagna se l'euro si indebolisce - sono state – come mostra il primo grafico - chiuse. Restano ancora aperte due tornate elettorali. Quella tedesca, dove la vittoria della CDU-CSU è quasi certa, e quella italiana. Nel primo caso il Populismo non dovrebbe comparire, nel secondo potrebbe dilagare, ma non per questo andare al governo (3).
– le aspettative che non migliorano
Se si assume, come è ragionevole, che i prezzi delle attività finanziarie cerchino di muoversi secondo un'idea di come sarà il futuro, allora oggi siamo su un terreno molto scivoloso. L'”indice delle sorprese” misura la differenza fra le previsioni dei maggiori operatori ed i numeri effettivi. Se la linea rosa – vedi il secondo grafico - sale, ecco che le nuove informazioni sono migliori di quelle attese, e viceversa. Ultimamente, le informazioni effettive sono peggiori delle attese. La relazione fra l'”indice delle sorprese” e i prezzi è significativa (4). Dunque abbiamo un campanello d'allarme. Campanello che è tanto più significativo, quanto più l'ascesa delle borsa statunitense è dipesa dalla scommessa che la politica del nuovo presidente avrà successo, come si evince da qui, più precisamente dalla seconda parte (5). In particolare, va segnalata la debolezza del settore bancario, che era salito con forza a seguito delle promesse elettorali di Donald Trump (6). Per chi fosse interessato alla comparazione fra Stati Uniti e Gran Bretagna, da intendersi come contrapposizione tra il populismo di Trump e quello di Brexit, ecco un'analisi (7).
4 - http://www.yardeni.com/pub/citigroup.pdf.
5 - http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/4681-asset-allocation-aprile-2017.html
6 - https://www.ft.com/content/4d713c16-4638-11e7-8d27-59b4dd6296b8
– timeo sauditi et dona ferentes
I Paesi produttori – OPEC e Russia - hanno deciso di allungare il tempo durante il quale la produzione è tagliata; nonostante ciò, il prezzo del barile non sale. L'obiettivo di alzare i prezzi è contraddittorio. Se il prezzo sale, ecco che i sauditi e i russi hanno maggiori entrate, ma i produttori statunitensi di petrolio shale coprono i propri costi e quindi rientrano nel mercato. Il loro ingresso incrementa l'offerta e quindi impedisce ai prezzi di salire. Con i prezzi più alti anche l'Iran rimpingua il proprio bilancio, e quindi rafforza il proprio ruolo di nemico dell'Arabia Saudita nella regione (8).
Fino alla rivoluzione khomeinista l'Iran e l'Arabia Saudita facevano parte della stessa coalizione schierata con gli Stati Uniti. Poi l'Arabia è rimasta sotto l'ombrello statunitense, mentre l'Iran è andato, fino a poco tempo fa, allo scontro. I due contendenti sono limitrofi - le genti mussulmane di osservanza sunnita e sciita vivono anche intorno al Golfo Persico, dove si concentra il grosso dell'attività e del commercio petrolifero, nonché il grosso delle riserve mondiali. I sauditi nel timore che gli Stati Uniti possano un giorno ritirarsi dal Medio-Oriente lasciando mano libera ai persiani, che sono molto più numerosi e che non sono una congerie di tribù, hanno cercato – non riuscendoci - di usare il prezzo del petrolio in caduta per indebolire - prima che sia, dal loro punto di vista, troppo tardi – l'avversario.
Complica il già complicato scenario la visita – la prima all'estero da quando è presidente - di Donad Trump in Arabia Saudita. Laddove sembra aver sposato la causa sunnita, indicando nei persiani “il” nemico, con ciò ribaltando la politica di apertura all'Iran di Barack Obama (9). Facendo così va nella direzione di rafforzare i sauditi che sono interessati ad avere una crisi con l'Iran (10). Infine, i sauditi non sono un amico innocente, perché sono allo stesso tempo sia degli alleati sia dei finanziatori di una parte del fondamentalismo (11), (12).
9 - https://www.ft.com/content/42aa841a-3fba-11e7-9d56-25f963e998b2
10 - https://www.foreignaffairs.com/articles/saudi-arabia/2016-03-07/saudi-arabia-needs-crisis
11 - https://www.ft.com/content/aee1eb48-452b-11e7-8519-9f94ee97d996
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