Si sta sempre più affermando nella gestione di portafoglio una tecnica di selezione dei titoli che utilizza l’analisi dei cosiddetti fattori. Uno studio recente fa il punto sul sistema bancario italiano analizzando i bilanci consolidati del 2018 di diciotto gruppi bancari .
L'approccio dei fattori alle obbligazioni
Si sta sempre più affermando nella gestione di portafoglio una tecnica di selezione dei titoli che utilizza l’analisi dei cosiddetti fattori. Si tratta di una tipologia di investimento che cerca di individuare alcune caratteristiche specifiche che segnalano, tramite l’analisi del passato, un comportamento più brillante rispetto all’intero mercato di riferimento. In linea di massima si fa riferimento a quattro categorie di fattori:
- Qualità: si basa sulla ricerca di società con caratteristiche di eccellenza in termini, ad esempio, di redditività, di solidità di bilancio e di uso efficiente degli asset.
- Valore: consiste nella ricerca di titoli con valutazioni relativamente basse in grado, potenzialmente, di rivalutarsi in misura maggiore dei concorrenti (ad esempio sulla base del rapporto Prezzo/Utili, Prezzo/Patrimonio Netto e rendimento del Dividendo).
- Momentum: in questo caso il parametro di selezione è l’andamento borsistico degli ultimi 6-12 mesi; la selezione dei titoli migliori si basa sull’ipotesi che il recente passato positivo tenda a replicarsi nel futuro.
- Basso Rischio: in questo caso gli investitori cercano titoli di società in grado di reggere eventuali scossoni del mercato in virtù delle bassa volatilità che li caratterizza.
Il successo degli ETF (Exchange-Traded Funds) si basa anche sulla possibilità che hanno offerto ai piccoli investitori di accedere a questa tipologia di selezione delle società quotate. La sofisticazione raggiunta permette oggi di investire in prodotti cosiddetti ‘multi-fattore’ che contengono titoli che rappresentano tutte le tipologie elencate.
Mentre per le azioni questa metodologia è ormai affermata, nel campo delle obbligazioni è forse meno diffusa. In realtà è possibile utilizzare la stessa tecnica anche se in misura più limitata. Bisogna considerare che la simulazione è applicata solo ai titoli governativi (*). Per questo motivo il primo fattore, Qualità, che si basa sulla specifica valutazione degli indicatori di bilancio delle aziende, potrebbe essere applicato solo alle obbligazioni societarie mentre non è utilizzabile per le obbligazioni governative.
Il terzo e quarto fattore, Momentum e Basso Rischio, sono individuabili esattamente come lo si fa per le azioni. Diverso, invece, il ragionamento che si deve fare per il secondo fattore, Valore. In questo caso l’analisi utilizza ovviamente una diversa metodologia per individuare titoli obbligazionari governativi con valutazioni relativamente interessanti. Semplicemente, considera la differenza tra il rendimento delle obbligazioni governative con scadenza decennale e il rendimento della liquidità, valore che viene tecnicamente definito come ‘Term Spread’ (**). Più questo valore è alto maggiore è il potenziale di rivalutazione delle obbligazioni.
SI simula il rendimento dei titoli governativi tra il 1986 e il 2018 di un gruppo di paesi (Australia, Canada, USA, Giappone, Regno Unito, Germania, Svezia) confrontandolo con la volatilità e il mercato. Vera l’assunzione di fondo, la conclusione su questo particolare campione, da cui è esclusa l’Italia pur essendo il terzo emittente per totale emissioni dopo USA e Giappone, sembra confermare che i tre fattori utilizzati siano efficienti, offrendo maggiori rendimenti del mercato a parità di rischio.
In realtà esistono dei limiti evidenti a questo approccio, primo fra tutti il riferimento a un arco temporale in cui la riduzione dei rendimenti delle obbligazioni non ha eguali nella storia finanziaria. Appare evidente che un fenomeno simile non è in grado di ripresentarsi nella dimensione e durata sperimentata nel passato, impedendo ai risultati dell’analisi proposta di essere meccanicamente ribaltati in una prospettiva futura.
Un secondo importante limite risiede nell’assenza dei costi di transazione nella simulazione effettuata. Nel caso specifico della allocazione per fattori il costo è stato stimato intorno al 40% (***) della performance, erosione particolarmente significativa sia perché le obbligazioni offrono di per sé rendimenti inferiori alle azioni sia perché gli attuali rendimenti sono talmente risicati da non permettere agli investitori di sostenere costi così elevati senza erodere completamente i potenziali guadagni.
Resta interessante il tentativo di applicare alle obbligazioni una metodologia di investimento pensata per il mondo azionario. Anche alla luce dei limiti segnalati, l’applicazione dell’approccio ‘fattoriale’ alle obbligazioni potrebbe essere un indicatore della evidente difficoltà nel giustificare l’investimento in attività che o rendono pochissimo o sono addirittura onerose, come la massa crescente di obbligazioni che offrono rendimenti negativi.
(*) “Factor investing in governments bonds”, Robeco, giugno 2019
(**) Lo Term Spread tedesco alla data dello studio era: 0,2% - (-0,65%)= 0,85%; quello americano era : 2,65% - 2,5%= 0,15%. Secondo questo approccio le obbligazioni decennali tedesche sono più appetibili di quelle americane nonostante queste ultime offrano rendimenti decisamente superiori.
Aggiornamento sulle banche italiane
Un studio (*) fa il punto sul sistema bancario italiano analizzando i bilanci consolidati del 2018 di diciotto gruppi bancari rappresentativi di due terzi del totale attivo delle banche italiane. Il campione comprende le banche maggiori, grandi, medie, piccole e mette a confronto non solo la variazioni rispetto all’anno precedente ma anche qualche confronto con i dati del 2009 quando la Grande Crisi Finanziaria era appena iniziata e gli effetti sui bilanci bancari dovevano ancora manifestarsi.
In dieci anni sono spariti undicimila sportelli. Erano trentunomila nel 2009, scesi a ventimila nel 2018. I dipendenti sono scesi di oltre centodiecimila unità, circa un quarto degli oltre quattrocentomila dipendenti bancari del 2009. A fronte di questo secco prosciugamento delle risorse umane e materiali il totale attivo è rimasto sempre lo stesso, un po’ meno di 2,5 migliaia di miliardi di euro. Anche i crediti alla clientela sono praticamente identici, circa 1,5 migliaia di miliardi di euro.
Sono invece scesi i crediti deteriorati netti di una ventina di miliardi, da 90 a 70 miliardi, e complessivamente la struttura patrimoniale sembra più equilibrata rispetto al passato grazie alla crescita della raccolta da clientela. La migliore qualità del bilancio si nota soprattutto nei valori del Texas Ratio, indicatore che confronta i crediti deteriorati con il patrimonio netto: se superiore a 100 è fonte di preoccupazione in quanto indica l’impossibilità teorica di coprire le perdite su crediti con le risorse patrimoniali.
All’apice della crisi le banche italiane non avevano risorse per coprire i crediti inesigibili ovvero il Texas Ratio era significativamente sopra la soglia critica di 100. A fine 2018 il valore è sceso a 67, persino inferiore al valore di 82 del 2009. Questa evoluzione si è tradotta nel conto economico delle banche: rispetto al 2009, nel 2018 i ricavi sono scesi drasticamente, soprattutto per effetto della discesa dei tassi, ma la riduzione dei costi e le minori perdite su crediti hanno determinato un livello di utili decisamente migliore dei livelli pre-crisi.
Questi numero non devono essere considerati come conclusivi di un percorso di risanamento che necessariamente continuerà per raggiungere livelli ancora migliori di qualità dell’attivo e di solidità patrimoniale. A questo scopo dovrebbero contribuire le minori rettifiche su crediti e il flusso negativo di sofferenze, ormai stabile da tre anni, in misura tale da generare utili sufficienti ad integrare il patrimonio e migliorare non solo il Texas Ratio ma anche altri importanti indicatori reddituali e patrimoniali.
(*) KPMG “Bilanci dei gruppi bancari italiani: trend e prospettive” Esercizio 2018
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