Seicentomila firme stanno scuotendo in queste ultime settimane la vita politica di Zagabria. Sono quelle raccolte dal gruppo 'Referendumski Ustanak', comitato per la 'rivolta referendaria', allo scopo di rimettere in discussione l'entrata ormai prossima della Croazia nell'Unione Europea.
Se tutto andrà come previsto dai promotori, l'iniziativa per il referendum dovrebbe giungere all'esame del Parlamento intorno al 7 marzo. Sulla questione non erano certo mancati i momenti di 'democrazia diretta': i cittadini croati avevano già potuto esprimersi sull'ingresso nell'Unione. L'avevano fatto a inizio 2012, quando il Premier Zoran Milanović aveva deciso di suggellare il percorso europeo del Paese ricorrendo alla consultazione popolare. Allora, il 66% degli elettori si era espresso favorevolmente. Ma la partecipazione era stata bassa: aveva votato solamente il 43,51% degli aventi diritto. E, a pochi mesi da una Croazia europea (la data prevista è il primo luglio), in molti sembrano avere cambiato idea.
Cruciale è stato l'ultimo anno e l'acuirsi della crisi economica, sulla quale si è abbattuta la scure dell'austerità europea. Pesano l'aumento della disoccupazione, i tagli progressivi alla spesa pubblica e i downgrade impietosi da parte delle principali agenzie di rating internazionali. Un copione già visto in molti paesi europei, ma che nel caso della Croazia sembra essere privo anche della sua contropartita virtuosa: quegli effetti benefici che storicamente conseguono all'entrata nel mercato comune europeo.
Nei mesi scorsi, in effetti, le notizie non sono state buone sul fronte della congiuntura economica. Per il quarto anno di fila, nel 2012, il Paese è risultato in recessione. Dal 2009, il PIL è diminuito dell'8,7% complessivo, con un picco negativo iniziale di -5% nel primo anno. I disoccupati in Croazia, a gennaio 2013, rappresentano circa il 22% del totale. Un incremento notevole, anche tenendo conto delle variazioni tra le differenti stagioni e quindi dell'impatto positivo del turismo, minore durante l'inverno: un anno fa, nel gennaio 2012, la disoccupazione era del 19%. Il numero delle persone senza lavoro, regolarmente registrate, è ora il più alto dal 2001.
Su questa situazione, già molto fragile, è calata la condanna delle agenzie di rating. In particolare di Standar & Poor's e Moody's, che hanno già rivisto il loro giudizio sui titoli del credito croato portandolo al livello spazzatura: colpa della congiuntura economica del continente, ma anche di riforme messe in atto senza la dovuta determinazione e che sono risultate, alla resa dei conti, non credibili.
Cedendo alle pressioni delle istituzioni finanziarie internazionali e di Bruxelles, e sperando che questo potesse porre le basi per la ripresa nel Paese, Milanović ha imboccato la strada dell'austerità, riducendo i trasferimenti diretti, gli stipendi degli impiegati statali e tagliando la spesa pubblica. Ma non è abbastanza: per fare ripartire l'economia croata sarebbe necessario agire soprattutto sui costi del lavoro, al fine di rilanciare le esportazioni. In più, queste impopolari decisioni hanno finito per alienargli il consenso popolare, oggi lontanissimo rispetto ai giorni in cui - all'inizio di dicembre 2011 - la sua coalizione, il 'kukuriku' costruito attorno al partito socialdemocratico, aveva sbaragliato la destra della HDZ, forza egemone della politica a Zagabria per vent'anni.
E' facile vedere come da questo punto di vista, i problemi della Croazia sono gli stessi che stanno mettendo a dura prova le istituzioni in Slovenia. La storia recente dei due Paesi, ancora memori dell'esperienza titoista, ha impresso nella popolazione un forte senso del welfare state e della necessità della presenza pubblica nell'economia. Ridurre gli stipendi dell'amministrazione statale è, per molti versi, un'impresa politicamente impervia. Ne è un esempio perfetto quanto è successo in ottobre, quando il governo ha deciso di eliminare i contratti collettivi di lavoro per i dipendenti pubblici, scatenando una serie di grandi manifestazioni di protesta nella capitale. In molti casi, come ad esempio per gli insegnanti, tale riforma ha significato porre fine a un trattamento economico che perdurava dai tempi della Jugoslavia.
Recentemente, Milanović ha dichiarato la volontà di ridurre del 3% lo stipendio a circa 250.000 dipendenti dell'amministrazione. Lo scopo dichiarato è quello di controllare il deficit di bilancio, che probabilmente quest'anno non sarà in linea con i parametri fissati a Maastricht. Nel frattempo, l'Unione Europea loda gli sforzi di Zagabria, ma è terrorizzata dalla possibilità del ripetersi di "un'altra Bulgaria o Romania". Negli ultimi mesi alle perplessità per certi versi prevedibili Londra si sono aggiunte quelle della Germania: Berlino deve assicurare alla propria opinione pubblica di essere intransigente nei confronti di matricole che potrebbero rivelarsi pessimi acquisti. Per quanto possa sembrare strano, è proprio la Germania uno dei pochi Paesi che oggi, a soli quattro mesi dall'ingresso della Croazia nell'UE, non hanno ancora ratificato il trattato di adesione, e ciò nonostante la storica amicizia che lega le due capitali.
A dispetto delle reticenze, sia esterne che interne, le possibilità che Zagabria veda arrestarsi il cammino dell'integrazione sono comunque ridottissime. Cionondimeno, è probabile che la meta possa rivelarsi amara: l'Istituto Economico di Zagreb, solo pochi giorni fa, ha messo in guardia la Croazia, sostenendo che il 2013 probabilmente non porterà nessun miglioramento all'economia del Paese. Se l'Europa non riparte, difficilmente riusciranno a farlo le sue periferie. Il ventottesimo paese membro rischia così di essere semplicemente un serbatoio di manodopera a basso costo per il resto del continente. Uno dei principali quotidiani del Paese, 'Veernji List', ha pubblicato un'inchiesta a metà febbraio. Il titolo, molto eloquente, era: "ecco quali sono i Paesi europei in cui sarà più facile farsi assumere".
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