Per la Macedonia la strada che porta a Bruxelles è costellata di fermate. Mentre in tutta la regione dell’ex Jugoslavia quasi tutti i candidati paiono compiere decisi passi avanti sulla via dell’integrazione europea (a cominciare dalla Croazia, che diverrà il ventottesimo stato membro tra pochi giorni), Skopje ha subito una pesante delusione quando l’Irlanda, il paese che ha la presidenza di turno dell’Unione, ha rifiutato di mettere all’ordine del giorno del prossimo consiglio europeo la possibilità di fissare una data per l’inizio dei negoziati di adesione.

Non sono bastati, evidentemente, cinque rapporti positivi da parte della Commissione: l’inizio dei negoziati per la Macedonia resterà una chimera, probabilmente, fino a quando non verrà risolta la disputa del nome. Fin dalla sua nascita come stato indipendente, come è noto, la Macedonia ha infatti dovuto scontrarsi con l’ostilità della Grecia, che vede nel nome assunto dalla repubblica (e nella bandiera) un’indebita appropriazione della propria identità storica, oltre che una potenziale minaccia irredentista che potrebbe destabilizzare i territori ellenici settentrionali.

Ancora una volta, le velleità europee del piccolo paese a sud della Serbia sono state frustrate, in un momento che certo non è facile. Alle involuzioni autocratiche dell’esecutivo guidato da Nikola Gruevski (VMRO-DPME) si è accompagnato, infatti, il rallentamento dell’economia: “va tutto bene”, sostiene Gruevski quando deve rassicurare i propri elettori, citando di volta in volta cifre prodigiose sul livello di investimenti diretti esteri o sulla produzione industriale in ascesa. Ma le cose, purtroppo, non stanno esattamente così.

Che si chiami FYROM (Former Yugoslav Republic Of Macedonia) o Macedonia, l’economia del Paese ha subito nel 2012 il contraccolpo della crisi europea. Nel 2013 e nei prossimi anni la crescita dovrebbe riprendere (+1,5% nel 2013 e + 2,5% nel 2014, secondo le stime della Commissione Europea), ma il sistema è troppo dipendente dalle esportazioni (43% del PIL totale nel 2012) per sperare di porre le basi di una crescita duratura e stabile. La disoccupazione sta scendendo, ma i suoi livelli rimangono comunque elevatissimi (attorno al 30%); per sopravvivere, buona parte della popolazione deve fare ricorso all’economia sommersa (per il quotidiano ‘Dnevnik’, rappresenta circa il 30% del PIL, 2 miliardi di euro che sfuggono all’erario).

È in questo scenario, tutto sommato sconfortante, che la Macedonia deve fare i conti con un revival nazionalista e con le ambizioni del premier Nikola Gruevski, giovane politico che è stato definito da alcuni commentatori “l’allievo di Putin”, per il suo modo di governare in spregio a ogni criterio democratico (in effetti, c’è anche chi lo ha accusato di essere “un nuovo Milosevic”). Gruevski, nato nel 1970, ha indebolito la libertà di stampa, ha “silenziato” la principale tv di opposizione, la ‘A1’, così come i quotidiani ‘Vreme’ e ‘Spic’.

«La libertà di parola rimane a rischio», ha scritto l’OECD nel suo rapporto annuale sulla Macedonia dello scorso anno: «nonostante il principio di separazione dei poteri sia iscritto nella costituzione, lo stato di fatto concentra il proprio potere nelle mani di un esecutivo predominante e onnipotente. Occorre un lungo processo di cambiamenti sociali e culturali, oltre che di riforme materiali, per rispettare la democrazia. L’establishment deve comprendere l’importanza del Parlamento». La strada da fare, sotto questo punto di vista, rimane molta: nei giorni di natale del 2012, quando l’opposizione ha cercato di impedire l’approvazione della legge di bilancio, contestata per gli sprechi e per la previsione di 300 milioni di euro di spese senza copertura, Gruevski non ha esitato ha fare intervenire le forze di polizia per fare sgomberare l’aula e votare così la legge finanziaria in assoluta tranquillità.

Di fronte alla situazione che va deteriorandosi, il governo ha cercato di utilizzare l’arma dello sciovinismo nazionalista per puntellare il proprio sostegno. A tratti la cosa è sembrata virare verso il grottesco, come nel caso della proposta di bandire le popolarissime serie turche dalla televisione, o come nel progetto ‘Skopje 2014’ – costato, si stima, tra i 50 e gli 800 milioni di euro – che prevede di trasformare la capitale e il suo centro in un immenso parco monumentale, con statue dedicate ai ‘padri della patria’ macedone.

Nel complesso, l’autoritarismo nazionalista di Gruevski è diventato preoccupante e ha favorito derive reazionarie della politica. Un esempio per tutti è la battaglia per aumentare la natalità della popolazione, che si è sostanziata nella restrizione del diritto all’aborto e ad alcune boutade propagandistiche, come l’ipotesi di introdurre una ‘tassa sugli scapoli’ che in Italia ricorda l’analogo provvedimento, adottato da Mussolini durante il ventennio. La propaganda del governo sembra tanto più assurda se si pensa che finisce col negare la realtà dei fatti. Lo si vede, benissimo, nel caso della Grecia: uno dei nemici più acerrimi di Skopje, nel discorso ufficiale, ma che si rivela essere il primo partner commerciale del paese, con quasi un miliardo di dollari di transazioni commerciali nel solo 2012.

La realizzazione di ‘Skopje 2014’ è stata congelata dopo che alle ultime elezioni locali il partito socialdemocratico (SDSM) ha conquistato la municipalità del centro della capitale, quella che dovrebbe gestirne i fondi e programmarne i lavori. Ma l’onda lunga dell’autoritarismo di Gruevski si farà ugualmente sentire, in un paese che solo nel 2001 è stato teatro di una guerra civile tra Macedoni e minoranza Albanese. Questi ultimi, che rappresentano circa il 25% della popolazione, difficilmente accetteranno a lungo di rimanere in una posizione passiva, mentre il governo celebra la grande nazione macedone.

In effetti, nel corso degli ultimi anni alcuni episodi hanno fatto temere una nuova escalation delle tensioni etniche: nel febbraio dell’anno scorso, cinque macedoni furono massacrati da un loro concittadino albanese, e la situazione sembrava essere sul punto degenerare. La crisi economica e la cattiva politica potrebbero così diventare una miccia per nuove violenze, forse in Macedonia ancora più che nel resto della regione. «Le divisioni etniche», ammoniva il filosofo Artan Sadiku qualche mese fa, «si stanno riattivando. Gli incidenti degli ultimi tempi non sono certo dei casi isolati. In realtà, se pensiamo a quanto fatto dal governo, ci dovremmo stupire che in fondo non siano stati più frequenti».