A maggio prima delle elezioni europee avevamo sostenuto che gli economisti hanno un ruolo quando si deve agire perchè si ha una crisi. Continuamo a lavorare sull'argomento. Nella prima parte della nota ci chiediamo con quale frequenza le crisi - più precisamente le recessioni - sono state previste dagli economisti. La risposta è "quasi mai". Riportiamo poi una parte dell'articolo di maggio che sostiene che - che sia prevista o meno - quando si ha crisi si deve agire.

1- Gli economisti e le recessioni di Stefano Puppini

Domanda: perché’ le recessioni e, all’opposto, le fasi di ‘boom’ economico non sono prevedibili? O meglio, non è detto che non siano prevedibili, ma l’evidenza empirica dice che gli addetti alle previsioni economiche sono riusciti ad anticipare l’arrivo delle recessioni, con un ragionevole anticipo, un numero insignificante di volte.

Tre economisti del Fondo Monetario Internazionale (FMI) hanno preso in considerazione 153 recessioni, 86 nei paesi avanzati e 67 nei paesi emergenti, accadute tra il 1992 e il 2014 in 63 nazioni (*). Per recessione gli autori intendono un periodo di dodici mesi in cui si registra un calo del Prodotto Interno Lordo (PIL). Partendo dalle previsioni redatte nel mese di aprile di ogni anno precedente una recessione dagli appartenenti al cosiddetto Consenus si hanno solo cinque casi in cui l’insieme delle stime sull’andamento del PIL sono riuscite a segnalare l’arrivo della caduta del PIL. Non hanno fatto molto meglio gli economisti interni del FMI.

Ovviamente la capacità previsionale tende a migliorare con l’avvicinarsi della recessione e ad ottobre, ossia sei mesi dopo la prima stima, il numero dei segnalatori corretti supera il centinaio. In ogni caso, anche quando la situazione di crisi è ormai pienamente conclamata restano oltre una trentina di stime che non prevedono neppure ciò che sta già accadendo ma che ritengono che l’economia debba crescere.

Che fare previsioni sia complicato non è certamente una novità. In realtà, l’analisi rivela che le stime ‘annusano’ il cambiamento ma tendono ad adattarsi con grande ritardo alla nuova situazione, sia essa di recessione o di boom, aspettando sempre l’ultimo minuto per adeguarsi alla realtà, così alimentando inevitabilmente il sospetto che le previsioni economiche vivano della propria ombra senza una effettiva utilità.

Lasciando aperto questo interrogativo si possono ipotizzare alcuni motivi che spieghino almeno in parte le cause di questa ripetuta inefficienza.

La prima ipotesi consiste nel supporre che gli economisti non abbiano sufficienti informazioni da inserire nei modelli previsionali, i quali tendono a ribaltare in prospettiva le media degli avvenimenti del passato perdendo costantemente di vista la fasi anomale sia in senso negativo che positivo. Bisogna considerare che nel caso di shock improvvisi, specialmente di origine politica, i modelli previsionali sono inevitabilmente impreparati a cogliere eventi non prevedibili.

Una seconda ipotesi tocca più da vicino l’aspetto umano e professionale dell’attività degli analisti. In sostanza, nessuno avrebbe interesse a scostarsi dalle stime in modo significativo in quanto la perdita, reputazionale o di altra natura, derivante dallo sbagliare una previsione è decisamente maggiore del guadagno derivante dall’essere anche l’unico ad avere esattamente previsto cosa sarebbe accaduto, evento che verrebbe forse ascritto più alla fortuna che alla serietà del lavoro.

A questa seconda ipotesi si associa un terzo fattore che si basa sull’idea che i comportamenti tendono a livellarsi anche tra esperti di altissimo livello che non trovano, nei pur sofisticati modelli econometrici, indicazioni valide per discostarsi con sufficiente anticipo dalle medie. 

(*) IMF Working Paper 18/39: “How Well Do Economists Forecast Recessions?” by Zidong An, João Tovar Jalles, and Prakash Loungani

 

2 – Il mercato come sistema “anti-intellettualistico” di Giorgio Arfaras

Partiamo dalle idee degli austriaci per definire i passaggi che possono portare alla comprensione della natura dell'esperto in economia. Possiamo arrivare a questa natura ragionando su come funziona l'economia di mercato. La velocità, il dettaglio, e l'imprenditore sono i passaggi per arrivare al dunque. Si vedrà che i “veri fatti” in una economia di mercato sono i “prezzi”, che sorgono spontaneamente. Dal che si arguisce che non esiste modo di avere qualcuno che conosca più fatti o i fatti più degli altri, alias l'esperto. Infine, criticheremo le implicazioni “austriache” cui eravamo giunti con tanto ardore, mostrando subito dopo un ragionamento opposto sull'importanza della tecnocrazia.

Secondo Ludwig von Mises il vantaggio dei mercati competitivi è la loro capacità di calcolare in tempo reale il valore di un numero immenso di beni, con la velocità con cui lo calcolano che è l'aspetto cruciale. L'economia statalizzata all'opposto è lenta, perché deve raccogliere le informazioni, costruire dei modelli che le trattino, e, infine, fare tutti i calcoli. Nel frattempo però il mondo è cambiato. Nei mercati competitivi prezzi fluttuano continuamente e quindi offrono informazioni a getto continuo. Che cosa fa si che la velocità e l'emergere del dettaglio diventino un sistema funzionante? E' l'attività imprenditoriale. Quest'ultima assomiglia all'arte militare, dove la velocità e il coraggio sono cruciali. Questa somiglianza fra l'imprenditore e il militare la si trova in un altro austriaco Joseph Schumpeter. Si noti che, come nell'arte militare, le decisioni imprenditoriali sono prese nella completa incertezza.

Ed eccoci al punto sugli esperti. I fatti con cui interagisce l'imprenditore – i prezzi – sono diversi dai fatti con cui hanno a che fare gli scienziati. Sono diversi perché sorgono spontanei, non devono essere fatti emergere, compresi, e poi certificati da nessuno, e consentono di avvantaggiare, se è fortunato, chi li capisce per primo. Quanto detto è sufficiente per affermare che l'intervento pubblico non serve? No. In caso di crisi serve, anche se la crisi non è stata prevista, come si è appena affermato nella prima parte della nota.

Un caso di intervento virtuoso della tecnocrazia degli econoisti è la crisi del 2008. Se gli investimenti internazionali sono concentrati in un'area – all'epoca in Europa – e sono in una valuta diversa da quella d'origine delle banche – all'epoca in dollari – ecco che o la banca centrale che controlla la valuta – la Federal Reserve – la fornisce - in caso di crisi e senza limiti - agli operatori esteri, oppure il sistema salta. Una parte cospicua degli attivi bancari europei erano in attività segnate in dollari. Altrimenti detto, senza l'intervento della Banca Centrale degli Stati Uniti, che forniva i dollari alle banche europee, il sistema sarebbe saltato. Il sistema europeo reagisce “legnosamente” alle crisi. E questo per ragioni ben radicate. La scelta fra una politica che vuole la ripresa trainata dalla spesa per poi fare le riforme e una politica che vuole prima le riforme e poi la crescita non è solo italiana. È la differenza fra la Germania e la Francia. La contrapposizione nel campo della politica economica fra i due paesi ha origine nel secondo dopoguerra, come elaborazione della tragedia che si era appena conclusa. La sua lontana origine ne ha nascosto la portata durante i primi tre decenni di euforia dopo la guerra, i cosiddetti “trenta gloriosi”. Anche a seguito degli accordi di Maastricht sui vincoli di deficit e di debito, la contrapposizione non si è palesata, perché non stava accadendo nulla di grave; è emersa con la crisi finanziaria.

Possiamo così giungere ad una conclusione. Chi crede che l'intervento pubblico in economia abbia un ruolo importante da giocare (il “keynesismo”) non nega che i mercati lasciati liberi di agire (e supervisionati dal potere statale che spinge verso la concorrenza) come nella modalità neo-liberista (di origine austriaca, ma anche dell'Ordoliberismus germanico) possano andare bene nel lungo periodo, una volta che le varie forze abbiano avuto il tempo di lavorare. Ma nega che queste verità si traducano sempre in regole di azione nel presente.