Perché il reddito elevatissimo di alcuni finanzieri non raccoglie la simpatia del pubblico, mentre quello dei divi dello spettacolo sì, o almeno in parte? Cerchiamo una risposta, partendo addirittura dal Medioevo.

Nel mondo medioevale si aveva la tripartizione degli oratores, dei bellatores e dei laboratores. I primi illuminavano con la parola, i secondi difendevano dai nemici, i terzi lavoravano per alimentare i primi due gruppi e, in minor misura, se stessi. Se i laboratores nutrivano rispetto per i superiori, e i superiori, ossia gli oratores e i bellatores, erano premurosi nei confronti dei sottoposti, ecco che si raggiungeva la «comunione dei cuori» – l’equilibrio statico, in linguaggio economico moderno. In tale contesto il peccato maggiore era la superbia – il volere un ruolo diverso da quello assegnato dalla provvidenza. E dunque l’ambizione per i laboratores, l’abuso di potere per gli altri.

Poi l’economia, a partire dall’XI secolo, comincia a fiorire. Mentre prima si produceva poco più di quanto fosse necessario per sopravvivere, ossia, in linguaggio economico, non si aveva un surplus, ora si produceva molto più di quanto servisse per la sopravvivenza.

L’avarizia è il peccato di volere più di quanto serva per «coprirsi e nutrirsi». Ma perché è un peccato? Perché distoglie dalla ricerca spirituale, cui uno deve dedicarsi una volta che si sia nutrito e coperto. E dunque, una volta che si abbia un surplus, l’avarizia diventa il peccato maggiore, che detronizza la superbia. La superbia è il peccato maggiore delle economie senza surplus, l’avarizia è quello delle economie con surplus. Sorge un problema. Se per evitare di peccare si spendesse meno del proprio reddito, ecco che l’economia, in assenza di una domanda sufficiente, si contrarrebbe e perciò si tornerebbe al punto di partenza, quello dell’economia senza surplus.

Come conciliare allora il surplus, che richiede una spesa superiore a quanto strettamente necessario, con il perseguimento della virtù? Secondo San Tommaso, il reddito può essere diviso in due parti. La «sostanza» è quanto necessario per vivere nella ricerca spirituale. L’«abbondanza» è quanto avanza. Segue che l’uomo ricco, se vuole essere virtuoso, deve distribuire l’abbondanza a chi è povero. In questo modo, anche quest’ultimo potrà procedere nella ricerca spirituale. Seguendo San Tommaso, avremmo sia una domanda effettiva sufficiente – i minori consumi dei ricchi sono compensati dai maggiori consumi dei poveri –, che evita che l’economia si contragga, sia il perseguimento della virtù.

L’economia che generava il surplus era molto più complessa di quella dei quattro servi della gleba sdentati che vivacchiavano in un capanno intorno al maniero. Si avevano i commerci. Sono i nuovi problemi che i teologi affrontano. I commerci fanno emergere il problema dell’interesse, che fino a quel momento era confuso con il problema dell’usura.

L’usura è un peccato di avarizia, perché, senza lavorare, uno ottiene più di quanto abbia dato. Detto diversamente, se uno riottiene il capitale prestato senza alcun interesse non pecca. In una società molto povera dove si scambiano sementi e attrezzi (prestiti non in denaro) non sorge il problema dell’usura. Esso sorge quando la società diventa ricca e i prestiti sono in denaro.

Nella società ricca, invece di un rapporto fra un benestante che presta e un indigente che chiede, dove si vede molto bene quale sia il contraente debole, si ha un rapporto fra due mercanti, ossia si ha un rapporto fra pari.

Il mercante che riceve il denaro può trovarsi in difficoltà, perché la sua nave è affondata, e quindi chi lo presta si può trovare ad avere un credito inesigibile. È anche vero l’opposto, la nave può giungere a destinazione e tornare, arricchendo il primo mercante. Nel primo caso il mercante che presta il denaro incorre in perdite, nel secondo guadagna nulla. È questa un’asimmetria giustificabile? Evidentemente no. Il divieto di prestare denaro in cambio di un interesse diventa un problema in una società ricca. Si bloccherebbe, infatti, il suo sviluppo. Non si troverebbe credito per i commerci.

Secondo il francescano Pietro Olivi, la capacità di un bene di soddisfare i nostri bisogni dipende sia da fattori oggettivi – la scarsità (raritas) e il costo di produzione (difficultas), sia da fattori soggettivi – il nostro desiderio di possederlo (complacibilitas). Dov’è la novità di questo ragionamento che a noi, otto secoli dopo, pare ovvio? Il bene economico deve essere prodotto e poi distribuito, giacché non sorge spontaneamente, e dunque il mercante ha un ruolo sociale, perché lavora. Il mercante, inoltre, si prende il rischio e stima un prezzo. L’interesse – inteso come un guadagno in aggiunta al capitale messo in gioco – è alla fine reso legittimo dal lavoro del mercante.

Resta aperta la questione di come organizzare l’erogazione dei credito, e anche quella di ridurre il campo d’intervento dell’usura. I Monti di Pietà sono la risposta pratica. I Monti sono promossi dai francescani. Essi hanno una pluralità di contributi – di versamenti in denaro – e quindi non dipendono dall’iniziativa di pochi; possono prestare a una moltitudine, dividendo il rischio, senza praticare perciò tassi da usura. (S’intravvede nei Monti la moderna teoria del portafoglio: con un maggior numero di soggetti si riduce il rischio e quindi il tasso di interesse praticabile; il quale minor interesse retroagisce, perché rende più sicuro il portafoglio, riducendo le insolvenze.)

A quei tempi è emesso per la prima volta il debito pubblico. Sorge il quesito: è lecito speculare – ossia comprare e vendere il debito pubblico – contando di guadagnare? Il francescano Francesco da Empoli spiega perché la speculazione non è usura, ossia un guadagno a fronte di alcun contributo. Chi acquista un titolo di stato compra il diritto di riscuotere un interesse e un capitale alla scadenza. Lo stato può però ristrutturare o ripudiare il debito e perciò la riscossione è incerta. Lo speculatore alla fine compra un diritto su un evento incerto. Il guadagno (eventuale) dello speculatore è il premio per il rischio che ha corso. Lo speculatore si comporta perciò come un assicuratore: se l’evento negativo non si manifesta l’assicuratore guadagna, altrimenti perde.

La Chiesa ammetteva il guadagno d’assicurazione e perciò doveva ammettere anche quello da speculazione.

La finanza diventa lecita sei secoli fa. Negli ultimi tempi non gode di gran credito. È frutto solo della crisi iniziata nel 2007, oppure c’è dell’altro?

Torniamo a Francesco da Empoli. La speculazione è lecita perché, affrontando l’incertezza, migliora la qualità dei giudizi. Essa corre dei rischi, e dunque i suoi eventuali guadagni sono leciti. In statistica si hanno le distribuzioni di eventi dove quelli negativi e positivi si compensano. Si hanno poi quelle in cui gli eventi positivi sono maggiori di quelli negativi, infine le distribuzioni in cui gli eventi negativi sono maggiori di quelli positivi. Nel primo caso, abbiamo il supporto statistico al ragionamento di Francesco da Empoli. Il finanziere in partenza non sa come andrà a finire. Nel secondo caso, abbiamo l’incentivo per il finanziere a operare senza remore. Nel terzo abbiamo l’incentivo a operare con prudenza.

In finanza le cose vanno bene per periodi prolungati e poi vanno male per periodi brevi. In altre parole, le ascese dei corsi sono lunghe e le cadute sono brevi. Le cadute possono riportare i corsi alla linea di partenza. Supponiamo che un mercato azionario salga per ben otto anni e poi cada in soli due, e che in quei due anni di caduta torni al punto di partenza. Negli otto anni di ascesa si hanno dei guadagni per l’industria finanziaria. Nei due anni di caduta non si hanno necessariamente delle perdite, se si ha un intervento pubblico di salvataggio.

La borsa statunitense è caduta da 1.500 punti a 750 dal 2000 agli inizi del 2003. Poi è salita da 750 punti a 1.500 punti dagli inizi del 2003 fino al 2007. Quindi è caduta da 1.500 a 750 punti dal 2007 agli inizi del 2009 e da allora è salita nel 2010 fino a 1.250 punti. Gli anni davvero pessimi sono stati il 2002 e il 2008, gli altri si sono conclusi con i corsi poco sotto la pari o in ascesa leggera o marcata. Tranne che nel 2002 e 2008, gli investitori hanno, guardando i risultati annuali, perso poco oppure guadagnato in termini nominali. Un ragionamento su dieci anni mostra però come si sia ancora sotto il livello del 2000 in termini nominali – 1.250 punti contro 1.500.

Gli eventi positivi sono dunque molti e quelli negativi pochi. E siccome sono pochi e comunque si è salvati dalla banca centrale con le politiche monetarie lasche o dal Tesoro con l’espansione della spesa, alla fine il rischio per l’industria finanziaria è quasi nullo e i suoi guadagni elevati. Negli Stati Uniti, dal 1948 al 1982 – prima che cominciasse la liberalizzazione del settore finanziario – il reddito medio di chi lavorava in finanza era eguale a quello di chi lavorava nel privato. Da allora è esploso ed è giunto nel 2007 a essere circa pari al doppio.

I grandi redditi dei finanzieri sono oggetto di pubblico fastidio, mentre quelli dei divi dello sport lo sono meno. Dipendendo questi grandi redditi dei finanzieri da una distribuzione di probabilità che li favorisce – pochi eventi negativi e molti positivi, anche per effetto dell’intervento pubblico – essi sono ritenuti quanto meno non troppo leciti. È come se, di fronte a una serie di rigori sbagliati, li si facesse ritirare finché la partita non è vinta.

Per approfondimenti:

Stefano Zamagni, Avarizia, la passione dell’avere, Il Mulino