Il salvataggio in corso negli Stati Uniti ha assunto delle dimensioni ciclopiche. Tutto parte dai mutui ipotecari. Le famiglie vogliono comprar casa, accendendo un mutuo. Le imprese finanziarie emettono obbligazioni, raccolgono il denaro, e lo prestano alle famiglie sotto forma di mutuo.


Abbiamo dunque un debito delle famiglie verso le imprese finanziarie ed un debito delle imprese finanziarie verso i sottoscrittori di obbligazioni. Un’obbligazione emessa per esempio dalla FIAT ha alle spalle un’attività specifica come gli impianti ed i macchinari, mentre le obbligazioni di cui stiamo parlando hanno alle spalle delle attività non specifiche, come gli immobili di milioni di persone. Chi emette obbligazioni spalma il rischio individuale, prestando poi il denaro a migliaia di persone. Se qualcuno è moroso, qualcun altro non lo è, dunque la morosità della popolazione è bassa. Le obbligazioni emesse, avendo un rischio basso, raccolgono denaro ad un tasso inferiore a quello che raccoglierebbe il singolo mutuatario che va da solo in banca. Le imprese finanziarie possono alla fine prestare denaro al singolo mutuatario ad un interesse inferiore. Il sistema alla fine lavora a favore del mutuatario. Chi compra le obbligazioni con in pancia i mutui ipotecari, nel dubbio che le cose possano andare male, può sempre assicurarsi. Stila un contratto che gli consente di riavere i propri denari, se l’emittente dell’obbligazione fosse moroso. Il sistema americano del debito, se ben funzionante, non ha “tare”, il mercato finanziario attraverso le obbligazioni presta i denari alle famiglie a dei tassi inferiori, ed è pure garantito dalle assicurazioni sulle obbligazioni che compra.



Insomma, un’economia “di carta” che funziona. Si pensi a Fannie Mae che raccoglieva i denari con le sue obbligazioni e offriva mutui a dei tassi accettabili, e ad AIG, che assicurava le obbligazioni altrui. La crisi in corso è scoppiata, perché si sono prestati facilmente (e furbamente) i denari e perché chi assicurava non faceva (sic) gli accantonamenti dovuti. La crisi in corso ha come causa il pessimo controllo del rischio, non la metafisica della inevitabile caduta dell’impero corrotto.


Come che sia la crisi è scoppiata. Che cosa avrebbero dovuto fare la Banca Centrale ed il Tesoro? Cercare di contenere le prime falle, contando che il sistema tenesse. Poi man mano che si vedeva che le cose non tenevano, allargare il campo di intervento. Abbiamo all’origine le obbligazioni con dentro i mutui (ed ora anche i crediti al consumo) che crollano di prezzo. Cadendo di prezzo, si comprime l’attivo delle istituzioni finanziarie, il passivo diventa superiore all’attivo, ed il sistema diventa “insolvente”.

In altre parole, i debiti sono superiori ai crediti. Il credito non è quindi erogato come dovrebbe, e l’economia si inceppa.


Ecco allora gli interventi della banca centrale e del Tesoro (BCT) e suddivisi per tipologia. (A) BCT possono scontare le obbligazioni cattive. Queste obbligazioni, che nessuno vuole, vengono portate alla banca centrale che da in cambio dei titoli di stato, che, invece, tutti vogliono. (B) BCT possono comprare le obbligazioni cattive, in modo che non si alzino troppo i rendimenti. Se i rendimenti si alzano, le nuove obbligazioni che finanziano i mutui diventano, infatti, più care. (C) BCT possono garantire i depositi bancari, e quindi evitare che si crei il panico. (D) BCT possono conferire capitale di rischio alle imprese finanziarie. Di mano in mano che il sistema del debito si sgonfia, aumentano gli interventi. Sommando le voci da (A) a (D) si arriva a 7,5 trilioni di dollari. 7,5 sono quanto è stato deciso di mobilitare, non quanto si è effettivamente speso. Ad oggi sono stati spesi 3 trilioni di dollari.



Il bilancio della banca centrale si gonfia per l’accumularsi delle obbligazioni “cattive”, mentre il bilancio del Tesoro si gonfia per le obbligazioni “buone” che emette. Da notare che non viene emessa moneta, il tutto è un ciclopico girotondo di obbligazioni. La quantità di moneta negli Stati Uniti è, infatti, rimasta, dallo scoppio della crisi ad oggi, invariata.


Per i particolari: http://www.bloomberg.com/apps/data?pid=avimage&iid=i0YrUuvkygWs.



La domanda è: questi 7,5 trilioni si trasformano in debito pubblico? Non tutti. Le garanzie sui depositi bancari probabilmente verranno usate in parte, e sono 1,5 trilioni, le obbligazioni cattive non saranno tutte irrecuperabili, e sono 4,5 trilioni, il capitale di rischio sottoscritto qualche cosa renderà, e via dicendo. Questo sembra essere il punto di vista del mercato, che per ora scambia le obbligazioni a lungo termine statunitensi con un rendimento intorno al 4%, un numero modesto, come se non stesse accadendo nulla di grave. Ossia, il mercato di fatto assume che il salvataggio alla fine costi poco, oppure che la crescita economica futura sarà tale da alleviarne l’onere, anche nel caso questo fosse elevato.



La politica fiscale (il deficit pubblico) sarà espansa nel 2009 nell’ordine di 750 miliardi di dollari, che vanno sommati al deficit pubblico corrente di 450 miliardi. Abbiamo quindi 1,2 trilioni di dollari di nuove obbligazioni. Se il piano di salvataggio si risolvesse in un recupero della metà delle obbligazioni cattive comprate da BCT, senza perdite sulle garanzie sui depositi e sul capitale di rischio conferito, avremmo all’incirca 3 trilioni di dollari di nuove emissioni. Sommando queste emissioni alle emissioni per il maggior deficit pubblico, arriviamo a 4 trilioni di dollari, che vanno aggiunti ai 10 mila miliardi di debito pubblico in essere. Gli Stati Uniti avrebbero un debito come quello italiano, intorno al 100% del PIL. Il meccanismo può reggere senza troppe scosse se il costo del debito (ossia i rendimenti delle obbligazioni) resta contenuto, e se tutti sono lieti di comprare attività denominate in dollari, ossia se tutti pensano che il dollaro non perderà nei confronti delle altre monete.


Negli ultimi tempi dal Giappone, una volta il maggiore creditore degli Stati Uniti, ed ora il secondo creditore dopo la Cina, si levano delle voci, da Kazuo Mizuno, capo economista della Mitsubishi Secutiries, e da Eisuke Sakakibara, ora semplice professore, ma una volta vice ministro delle Finanze e potentissimo “puparo” dello yen, che richiedono l’emissione di obbligazioni del Tesoro statunitense denominate in valute diverse dal dollaro, nella fattispecie in yen. I titoli del Tesoro denominati in yen ridurrebbero il rischio di cambio per i compratori giapponesi e cinesi” ha dichiarato Masaki Fukui, un economista della finanziaria Mizuho. Il quale ha poi affermato che "se i timori sul debito statunitense continueranno a montare, nessuno li vorrà più comprare. Perciò denominarli in un'altra valuta aiuterebbe la loro sottoscrizione”. Un fatto che ricorda i tempi di Carter quando, nel 1978, fu richiesto agli Stati Uniti di emettere obbligazioni in marchi e franchi svizzeri, i “Carter Bond”. Un segnale di sfiducia nel dollaro, o, come avrebbe detto sornione il Generale De Gaulle: la presa d’atto che gli Stati Uniti godono di un “privilegio esorbitante”, ormai ingiustificato, nel battere l’unica moneta internazionale. Infatti, se gli Stati Uniti emettono obbligazioni in dollari, alla scadenza, le rimborsano in dollari. Per chi sottoscrive il cambio del dollaro con lo yen alla scadenza delle obbligazioni diventa importante, quanto il tasso di interesse sulle obbligazioni stesse. Se, invece, gli Stati Uniti emettono le proprie obbligazioni in yen, alla scadenza, devono rimborsarle in yen. Per chi, giapponese, sottoscrive non rileva più il tasso di cambio, ma solo il tasso di interesse. Se questo è superiore a quello che otterrebbe nel proprio paese, e se lo giudica congruo, allora le può sottoscrivere. Quale sia l’andamento del cambio diventa allora, e per la prima volta, un problema statunitense.
 


Sembra un ragionamento astruso, ed in fondo anche innocente, ma non lo è. Se gli Stati Uniti dovessero mai emettere debito in valuta, dovrebbero procurarsela. Il che avviene solo andando in avanzo commerciale con gli altri paesi, ossia comprimendo sistematicamente il livello dei consumi. Un fatto politicamente difficile da gestire. E’ infatti abbastanza facile trovare consenso intorno alla crescita, mentre diventa difficile trovarlo intorno alla poca crescita.
 


Pubblicato su L'Opinione il 27 novembre 2008 e su Gazeta.ru il 9 dicembre 2008