Venti e passa anni fa, quando Jury Andròpov, già capo del KGB, divenne segretario del PCUS, alcuni riformatori pensavano che non fosse un gran male, perché, come capo del KGB, era in grado di sapere come andavano davvero le cose.
Si diceva che le cose andavano ben peggio di quel che si sapeva ufficialmente, ma non si sapeva bene “quanto” peggio. Lui sapeva e poteva agire. Poi le cose presero la piega nota e, alla fine, l’impero cadde. Negli Stati Uniti c’è chi sostiene che le cose vanno peggio di quanto ufficialmente si sappia, e che il rischio è di fare la fine dell’Unione Sovietica. L’analogia, a ben guardare, non regge. La differenza è nella libertà d’espressione. Ultimamente la discussione verte, negli Stati Uniti, sulla misurazione del tasso d’inflazione e sulla disoccupazione. I numeri ufficiali, o, almeno quelli che, fra tutti i numeri forniti dalle autorità, sono i più popolari, distorcono la percezione degli andamenti economici, facendoli sembrare migliori, oppure no? Occupiamoci dell’inflazione.
Oggi un’automobile “utilitaria” costa, per fare un esempio, dieci mila euro, mentre una volta, poniamo dieci anni fa, costava cinque mila euro. E’ dunque cara il doppio? Non è detto, perché ora offre l’aria condizionata, i freni ABS, ecc. Dunque costa il doppio, ma forse offre il doppio. Se asseriamo che l’inflazione sul versante delle automobili è stata pari al 100%, diciamo una cosa vera e falsa allo stesso tempo. Vera, perché l’auto costa il doppio, falsa perché le cose in più che offre andrebbero messe in conto. Lo stesso si può dire di altri prodotti. Gli statistici cercano di misurare queste cose, quando calcolano il tasso di inflazione. Tentano di misurare la soddisfazione (edonè, in greco) che si trae dal consumo della nuova utilitaria rispetto a quella vecchia, in termini di aria condizionata, di sistemi frenanti, ecc. Poniamo che l’aria condizionata ed i sistemi frenanti siano una aggiunta di valore pari a 3.000 euro. Il prezzo della macchina è di 10 mila euro, ma una macchina equivalente di dieci anni prima sarebbe costata, a parità di dotazioni, 8.000 euro (5000+3.000). Dunque l’inflazione non è del 100% (10 mila diviso 5 mila), ma del 20% circa (10 mila diviso 8 mila). Segue che l’inflazione misurata al “valor facciale” è, in presenza di un sistematico miglioramento della qualità dei prodotti, più alta di quanto sarebbe misurata edonicamente. Le statistiche, senza le correzioni della qualità, mostrerebbero un tasso di inflazione maggiore. Per esempio, senza calcoli edonici, il tasso di inflazione statunitense, quello che tiene conto anche del prezzo del petrolio e del cibo, sarebbe, con il metodo del 1983, pari al 12% e non al 4%, come è col calcolo fatto col metodo di oggi. Attenzione, nessuno dei critici del calcolo dell’inflazione pensa ad un complotto. Infatti, essi parlano di una cumulazione di comportamenti di tipo opportunistico, portati avanti negli anni sia dalle amministrazioni democratiche sia da quelle repubblicane. Il tutto è stato fatto per evitare di pagare più interessi sul debito pubblico (i tassi sarebbero, infatti, maggiori con un’inflazione maggiore), per pagare meno la sicurezza sociale (le cui prestazioni sono indicizzate), per tenere bassi i salari, ecc.
Che cosa dicono i difensori dei numeri così come sono noti e condivisi? Fanno innanzi tutto un ragionamento “per assurdo”. Se il tasso di inflazione vero fosse così distante da quello ufficialmente condiviso, si avrebbe un terremoto, che invece non si vede. Infatti, se il tasso di inflazione fosse del 12%, il rendimento delle obbligazioni, che storicamente hanno dato luogo ad un rendimento reale, ossia al di sopra dell’inflazione del 2,5%, sarebbe del 14,5% (=12%+2,5%) e non, invece, del 4% circa, qual è oggi. Possibile che tutti quelli che hanno a che fare professionalmente con le obbligazioni si sbaglino ed accettino un rendimento negativo enorme, pari al 8% (=4%-12%)? Il ragionamento “per assurdo” è seguito dalla difesa “diretta” del calcolo edonico. Il calcolo dell’inflazione senza aggiustamenti, non solo non tiene conto dei miglioramenti della qualità, ma non tiene nemmeno conto della reazione che la crescita dei prezzi stimola, vale dire che il consumatore passa ad altro. Vediamo un esempio italiano, dove ci si lamenta della crescita dei prezzi della ristorazione. La pizza continua a crescere di prezzo e quindi debbo, per mangiarla una volta alla settimana, rinunciare al comprarmi un libro. Decido, se amo leggere, di starmene a casa a cucinare spaghetti. Un comportamento edonico, in cui il mio personalissimo indice dell’inflazione dei beni di consumo registra una inflazione minore, sempre che l’inflazione libraria sia inferiore a quella della pizza. E se l’inflazione dei libri esplodesse? Andrei alla libreria comunale, un altro comportamento edonico.
Pubblicato su L'Opinione il 15 maggio 2008
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