Immaginiamo che in un tempo più o meno breve il primo produttore di petrolio al mondo, l’Arabia Saudita, dica ai suoi clienti: «Signori, causa domanda interna, dal prossimo anno non potremo più onorare i vostri contratti. Sicché andate a bussare a qualcun altro». La cosa sconquasserebbe non poco mercati ed equilibri geopolitici.

Questa previsione raccolta da Bloomberg è legata all’ipotesi è che, entro il 2030, l’Arabia Saudita possa essere sovraccaricata da una domanda interna di energia così elevata da dovere correggere al ribasso le esportazioni di petrolio o addirittura rinunciare a esportarlo. D’accordo: per tutti noi sarebbe drammatico. Ma, da un punto di vista di consumatori, il problema sarebbe risolvibile. Basterebbe essere disinvolti e realisti. I sauditi non vendono? Perfetto. Si va in Iran, si fa pace con gli Ayatollah ed è come se non fosse successo nulla. Oppure si va nell'off shore del Brasile e si comincia a trivellare.

A onor del vero, gli analisti intervistati hanno deciso di far suonare un campanello d’allarme non del tutto inedito. I sauditi stessi si sono domandanti cosa accadrebbe se davvero un giorno non fossero più in grado di sostenere la domanda di greggio che arriva loro dal resto del mondo. «Senza petrolio, riusciremmo a fare ancora i nababbi?» A oggi Riyadh è sì riuscita a definire alcune strategie, senza che però nessuna la soddisfi appieno.

Il regno degli al-Saud sfoggia un’estrazione quotidiana di oltre 10 milioni di barili di petrolio. E controlla un quinto delle riserve mondiali, circa 262,6 miliardi di barili. Che il mercato sia suo si sa. Passano inosservati gli indici di produzione e consumo di energia elettrica. L’Arabia Saudita praticamente consuma tutta la luce prodotta, senza importarne. I sauditi non sanno cosa voglia dire accendere una lampadina senza che a monte di tutto ci sia l’oro nero. E tanto meno diversificano le fonti. Anzi, proprio sul petrolio è arroccata la loro economia. I proventi dell’oro nero costituiscono l’80% delle rimesse statali e il 45% del Pil.

Un altro elemento sul quale non ci si sofferma mai è l’equilibrio sociale del Paese. I 26 milioni di cittadini sauditi crescono dell’1,5% l’anno. Tanto se confrontato con l’Europa, non oltre il punto percentuale. Poca cosa rispetto al 2,3% africano. Sono però i 6 milioni di immigrati – già presenti sul suolo saudita a lavorare presso i pozzi petroliferi – a preoccupare. Perché si tratta di un buon quarto della società nazionale, che oggi vive al di sotto della soglia di povertà, ma che un domani, vuoi perché arricchito, emancipato o riscattato politicamente, potrà rappresentare un grossa fetta di quei consumatori che, in teoria, sono una minaccia per gli introiti petroliferi del regno

Il destino di Riyadh è simile a quello dello Yemen compiutosi negli anni Sessanta? Anche l’angolo più estremo della Penisola arabica una volta esportava petrolio. Poi questo finì e lo sviluppo dello Yemen rimase al palo. No, che l’Arabia Saudita regredisca a essere quel deserto abitato da beduini con delle bandiere – così la definiva Nasser – è un po’ troppo immaginifico. Anche perché il regno resta il quarto Paese al mondo per riserve di gas naturale. Quelle certificate sono sulle 7,8 migliaia di miliardi di metri cubi. Insomma, prima che i combustibili fossili brucino tutti, ci vuole un po’. Però è giusto che Riyadh si guardi allo specchio. Fermo restando che il 2030 resti una data allarmistica, i progetti di politiche energetiche alternative lasciano tutti una serie di dubbi.

Nel 2001, re Abdallah, allora principe regnante al posto del fratello Fahd, ha spartito le responsabilità del settore energetico tra il ministero del petrolio e quello dell’acqua ed elettricità, con lo scopo di realizzare un piano per lo sfruttamento delle risorse idriche e creare una rete di distribuzione in tutto il regno. Il guaio è che il Paese non ha praticamente acqua. Da qui l’installazione di 27 stazioni per la desalinizzazione delle acque marine. La struttura produce tre milioni di metri cubi giornalieri di acqua potabile. Sufficiente per soddisfare il 70% della domanda idrica nelle città, nonché una fetta importante delle richieste che arrivano dall’industria. Ma questo non basta. Dissetare il Paese è importante sì. Ma non sufficiente. L’acqua desalinizzata infatti non viene utilizzata per la produzione di energia.

Discorso simile per l’energia solare. Si può fare. Ovviamente di risorse a disposizione ce ne sono a iosa. Al momento si è nella fase di scelta: fotovoltaico, sistemi a concentrazione solare (concentrating solar power, Csp) o entrambi? I tecnici tedeschi però, leader mondiali nel settore, stanno avanzando le loro perplessità. Soprattutto sul contesto ambientale. L’Arabia Saudita è talmente esposta ai raggi solari, e con essi all’aridità del clima e alla sabbia, che gli impianti ne risentirebbero e i costi di manutenzione sarebbero elevatissimi. I sauditi hanno risposto che potrebbero coprire le spese con i proventi petroliferi. Senza rendersi conto che è da questi che si devono emancipare.

Infine il nucleare. Per re Abdallah si tratta di un sogno nel cassetto che, all’età di 88 anni, vorrebbe veder realizzato il più in fretta possibile. Nel 2010 ha fondato la King Abdullah City for Atomic and Renewable Energy (Ka-Care). Sul trono saudita, siede un uomo che vuol fare del suo regno l’esportatore leader di energia elettrica nel mondo arabo. Per questo ha indirizzato 112 miliardi di dollari per l’installazione di 16 reattori nucleari, da qui ai prossimi vent’anni. Bisogna dirlo: Riyadh sa come trasformare un ostacolo in una sfida. Il problema è che, in questo caso, l’impedimento non si limita alle questioni economiche. Bensì sfocia nella geopolitica. I consiglieri del re, primo fra tutti il ministro degli esteri, Saud al-Faisal, sono consapevoli che una corsa al loro nucleare farebbe da sprone agli interessi degli iraniani nello stesso terreno. E questo gli Stati Uniti non lo possono permettere. Non a caso Francia e Giappone, le quali nel 2009 si erano dichiarate pronte a trasferire ai sauditi tecnologia e uranio, hanno congelato la trattativa.

Nel 2010, è partito il nono piano di sviluppo economico. Dovrebbe scadere tra due anni. Il progetto prevede un forte impegno per la diversificazione produttiva del Paese, puntando sulla creazione di una classe dirigente altamente competitiva e quindi sull’educazione. L’apertura della King Abdallah University of Science and Technology (Kaust), inaugurata a Gedda nel 2009, dovrebbe fare da traino ad altre iniziative. In particolare creare una costellazione di sei centri urbani per il rinnovamento dell’economia nazionale. La legge del 2010 prevede anche un investimento complessivo di 385 miliardi di dollari. Una discreta liquidità. Il problema è che si tratta di denaro che anch’esso odora di petrolio. La Kaust, per esempio, è stata aperta con 10 miliardi di dollari di investimento. Molti di questi però vengono dalla Saudi Aramco, la quale si è aggiudicata il diritto di gestione dell’ateneo fino a quest’anno. In pratica, il regno vuole mettere in piedi un mercato del lavoro che non sia pompato dai pozzi petroliferi, pur essendo comunque finanziato da questi ultimi.