Si ha chi vuole il ritorno della spesa pubblica in deficit magari finanziata dalla Banca d'Italia, con contestuale ritorno della Lira. E' un punto di vista analiticamente debole, ma che potrebbe avere un suo fascino come narrazione durante la campagna elettorale per le europee. Di seguito raccolgo ed elaboro la traccia gli interventi fatti sull'argomento - soprattutto in sede di presentazione del "Rapporto sull'economia globale e l'Italia" che si sono tenute a Torino e a Lecco.

Una volta - fino alla fine degli anni Settanta – avevamo la spesa pubblica in deficit – più precisamente le spese erano maggiori delle entrate prima del pagamento degli interessi – finanziata - in parte - dagli acquisti di obbligazioni fatti dalla Banca d'Italia. Si aveva perciò una spinta proveniente dalla domanda pubblica in deficit, senza un costo da interessi passivi eccessivo, perché la Banca d'Italia comprava una parte del debito – proprio quel che accade oggi negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, e in Giappone. Inoltre, la dinamica demografica era positiva – le nuove coppie dovevano ben avere un tetto, una lavatrice, una automobile, eccetera. Dunque si aveva una domanda crescente di beni di consumo durevoli. Infine, a quei tempi, spuntò dal nulla tutta un'area – il Nord Est – che spinse la crescita.

Poi – dagli anni Novanta – i tre motori della crescita si sono esauriti. La spesa pubblica è diventata - per mettere sotto controllo il gran debito pubblico - inferiore alle entrate fiscali prima del pagamento degli interessi, e le obbligazioni emesse per pagare gli interessi sul debito pregresso non sono state più comprate dalla Banca d'Italia. Inoltre, la curva demografica si era invertita, e dunque si è avuta una caduta della domanda di beni durevoli. Infine, non è nata alcuna nuova area economica ad alto impatto, come era stato il Nord Est. Ecco allora che l'economia italiana si è afflosciata.

Il moltiplicatore della spesa pubblica in deficit è tanto maggiore quanto maggiore è la propensione al consumo di chi beneficia della spesa in deficit e tanto minore è la propensione a importare. Se spendo in deficit 100 euro e il reddito sale di 150 euro – il moltiplicatore è pari a 1,5 -, ecco che, anche se finanzio la spesa in deficit con l'emissione di obbligazioni, il rapporto debito su PIL scende! Infatti, spendo 100 euro ed emetto 100 euro di obbligazioni e il PIL mi cresce di 150 euro, avrò, al margine, un debito che diminuisce: 100/150=0,75. Ma se, come accaduto nella costruzione della metropolitana di Torino, chi lavora è peruviano e perciò rimette una parte del reddito nel paese d'origine, allora la propensione al consumo del peruviano che vive in Italia diminuisce. Se poi, la minor propensione al consumo del peruviano si riversa nell'acquisto di lavatrici italiane prodotte in Polonia, ossia se la propensione all'importazione è elevata, ecco che il moltiplicatore della spesa in deficit diventa modesto. Poniamo che il moltiplicatore sia pari a 1. Spendo 100 euro in deficit, emettendo obbligazioni per 100 euro, con il reddito che mi aumenta di 100 euro: il rapporto debito su PIL resta invariato.

Insomma, con l'arrivo di lavoratori dall'estero, perché molti impieghi sono rifiutati dai nativi, e con la delocalizzazione, la spesa pubblica in deficit funziona poco. L'idea di rilanciare l'economia in questo modo può essere una trovata per incrementare l'audience elettorale con promesse facili, ma non funziona certamente come in passato. Non si può nemmeno promettere una crescita economica trainata dalla demografia, perché non si possono obbligare i concittadini a fare più di due figli per donna, così come non si può avere una crescita che è trainata dalla nascita di intere nuove aree, solo perché lo si desidera. Insomma, bisogna ragionare in un modo diverso e non promettere le ricette del tempo che fu.

Perché a molti piace la Lira? Pensano che così, nel caso in cui l'industria del Bel Paese perdesse capacità competitiva, con la svalutazione la si recupererebbe. Se, infatti, i miei costi crescono del 20% più di quelli degli altri, ecco che, svalutando del 20%, torno al punto di partenza.

In effetti, il divario di crescita del costo del lavoro per unità di prodotto fra l'Italia e la Germania si è ampliato nell'ultimo decennio di un 20% circa, ossia quello italiano è cresciuto del 20% in più. Il costo del lavoro per unità di prodotto, non il livello del salario. Quello tedesco è, infatti, pari al doppio di quello italiano. Si è perciò avuta solo un'erosione del divario assoluto, crescendo i nostri costi unitari (ossia quelli relativi alla produzione) di più.

L'alternativa alla svalutazione, è alzare la produttività – il prodotto per addetto - del lavoro, che ne assorbe il costo, oppure abbassare il livello dei salari a parità di produttività. Si ha l'ovvia difficoltà politica di abbassare i salari. Se i salari cadono del 20%, ma gli affitti, i servizi in genere, non cadono del 20%, ecco che i salari reali si riducono. Se, invece, gli affitti, i servizi in genere, cadessero anch'essi del 20%, i salari reali resterebbero invariati. La probabilità che molti beni che i salari consumano scendano significativamente di prezzo è però bassa, se non nulla. Non resta perciò che alzare la produttività. La quale produttività, però, può salire se il prodotto aumenta a parità di salari, oppure, se diminuisce il numero di lavoratori a parità di salario.

Insomma, non è facile chiudere i divari di produttività. Sempre che il problema sia solo quello del divario nella crescita del costo del lavoro per unità di prodotto. Incidono negativamente sulla competitività delle imprese italiane anche l'ipertrofia burocratica, il costo dell'energia e dei trasporti, nonché delle imposte che penalizzano l'occupazione, indipendentemente dai risultati di impresa – come l'IRAP.

Quelli che vedono “la magia” delle svalutazioni fanno questo ragionamento: la svalutazione rende competitive le merci italiche sia all'estero (le merci italiane costano di meno in valute terze) sia all'interno (le merci estere costano di più in Lire). Perciò, crescendo il fatturato, cresce anche l'occupazione, e dunque alla fine i consumi, e quindi l'economia. Ossia, assumono che la produzione italiana sia “fungibile” con quella estera, essendo l'unica differenza il prezzo per delle merci tutte egualmente offerte e sostituibili. Se così non fosse – certe merci non sono sostituite immediatamente da quelle italiane, perché queste ultime sono di minore qualità, oppure non producibili come le materie prime di origine mineraria – allora la svalutazione della Lira non funzionerebbe facilmente.

Esempio, per comprare una berlina tedesca di lusso non sostituibile con un'equivalente italiano ecco che devo vendere molti più beni italiani, invece di 800 cravatte, 1000 cravatte per ogni auto di lusso. Un barile di petrolio mi costerebbe molte più cravatte, formaggi, vini, eccetera. Alla fine, si “cede” un maggior numero di beni prodotti internamente, per avere un solo bene prodotto all'estero. In ogni modo, vale sempre l'obiezione che anche gli altri, se hanno una struttura produttiva simile a quella italiana, potrebbero svalutare, con ciò annullando gli effetti benefici della Lira debole.

La quale Lira debole “comanderebbe” un premio per la svalutazione potenziale sempre presente. Se so che la Lira si può sempre svalutare, ecco che il rendimento del BTP dovrà incorporare il premio per la svalutazione più un sovra premio per tener conto di una svalutazione che sfugga di mano. Il costo del debito pubblico e del credito si alzerebbe.

Perciò le obiezioni al ritorno della Lira sono essenzialmente due: non si avrebbe un recupero automatico della capacità competitiva e si avrebbe un peggior bilancio pubblico e una maggior costo del credito.

Questa tentazione – la spesa in largo deficit con Lira – è molto poco credibile come atto pratico, ma è abbastanza facilmente spendibile nella campagna elettorale per le Europee di maggio. Fino a qualche giorno fa questa narrazione sembrava tentare non solo il Movimento delle Cinque Stelle, ma anche Forza Italia. A noi interessa capire – avendo in mente l'investimento nel debito pubblico italiano - quanto possa prendere corpo come prassi politica. Se non prende corpo come prassi politica, questa narrazione non avrà peso “pratico” sulla quotazione del BTP.

E qui ci sono delle buone notizie. Dall'incontro della delegazione di Forza Italia con il Presidente del Consiglio incaricato è emersa la volontà di Berlusconi di stare sì all'opposizione, ma di votare i provvedimenti del prossimo Governo Renzi che siano nella direzione del mutamento. In breve: la legge elettorale, la riforma del Senato e delle Regioni, il Mercato del Lavoro, la Fiscalità del lavoro e delle imprese, e, infine, la riforma dell'assetto giudiziario. Se così sarà, ossia se in futuro avremo la “opposizione costruttiva”, ecco che il sentiero intrapreso sarà quello di riformare le cose entro i vincoli di bilancio pubblico, ed entro l'euro. Se così sarà, inoltre, non passerà praticamente la narrazione che tutto va bene, non fosse per l'euro e l'austerità, ma passerà la narrazione che i nostri problemi hanno ben altre e profonde radici che vanno affrontate “di petto”.

Insomma, se tutto andasse in questa direzione, avremmo un governo di “larghe intese” nelle “cose” – ossia l'opposizione vota solo quello che condivide, ma quello che condivide è la sostanza delle cose – anche se non abbiano un governo di “larghe intese” nella “forma”. Letta aveva in partenza le “larghe intese”, poi, con la rottura legata alla decadenza da senatore di Berlusconi, era passato, con Alfano, alle “piccole intese”. Ora, seppur in modo contorto, abbiamo di nuovo le “larghe intese”, nonostante la Legge Elettorale in discussione. Essa, infatti, premia con il doppio turno chi vince anche se di poco, e perciò porta all'impossibilità delle “larghe intese”.