La crescita della disoccupazione americana, a sorpresa, ha registrato un calo: 10 mila posti in meno, contro i 100 mila in meno attesi. Il tasso di disoccupazione si attesta appena sopra il 10% della forza lavoro. Prendendo i dati più completi – ossia che considerano disoccupati anche quelli che loro malgrado svolgono un lavoro a tempo determinato – si arriva appena sopra il 17%. I dati sulla variazione della disoccupazione sono rivisti dopo la prima comunicazione. Sono anche rivisti molto, del 50% in media. La cautela è quindi d’obbligo. La borsa degli Stati Uniti, dopo una forte ascesa iniziale, è flessa, e a fine seduta è tornata appena sopra il livello d’apertura. L’andamento alterno della borsa di ieri si spiega con una tecnica d’investimento detta event driven. Ossia, si prendono delle posizioni prima di un evento importante; si vede il dato, e poi si agisce. Coloro che avevano scommesso su un numero di disoccupati molto elevato hanno venduto «allo scoperto». Visti poi i numeri migliori, sono corsi a comprare. E la borsa è balzata. Poi, chiuse le posizioni event driven, si è tornati agli scambi normali.


La ripresa in corso durerà? (1). Alcuni segnali positivi si stanno consolidando, perciò l’ottimismo non è più un lusso. Sembra quasi assodato che una nuova caduta sia improbabile, benché vi siano molti dubbi sulla forza della ripresa. In ogni modo, anche con la ripresa economica, l’opinione condivisa è che l’occupazione crescerà poco. La scommessa occupazionale di Barack Obama resta dunque rischiosa. I liberal, sempre più disamorati del loro Presidente, chiedono misure concrete, anche perché le elezioni di mid-term del 2010 non sono così lontane, e il mercato del lavoro ha tempi di reazione lunghi. Obama offre il massimo impegno, convoca imprenditori ed economisti alla Casa Bianca, promette misure rapide ed efficaci. Soprattutto, conta su Pechino, il «convitato di pietra» degli incontri a Washington sull’occupazione americana (e non solo).
 
Dopo l’estate, Obama ha chiesto ai cinesi un «riequilibrio» dei rapporti, che in sostanza prevede – secondo l’ottica americana – il ribaltamento di uno dei pilastri della dottrina economica cinese: «China makes, the world takes», la Cina fa e il resto del mondo prende. «Non possiamo tornare indietro all’era in cui i cinesi ci vendevano qualsiasi cosa ma noi non vendevamo niente a loro», ha detto il Presidente americano, che semplicemente non può permettersi che questo accada: gli enormi investimenti fatti per il rilancio dell’economia e per la creazione (o salvataggio) di posti di lavoro prevedono che poi ci siano acquirenti. Nella fattispecie, acquirenti globali, e non c’è nulla di più ambito oggigiorno del consumatore cinese: un mercato gigante e con potenziale enorme.
 
Come ha spiegato l’ex ministro del Lavoro clintoniano Bob Reich (2), nel 2009 la Cina è seconda soltanto agli Stati Uniti nella vendita di computer. Lo stesso vale per i telefoni cellulari e, se si escludono le auto di grande cilindrata, i cinesi hanno acquistato nello scorso anno tante auto quanto gli americani (fino al 2006 questi ultimi ne compravano il doppio rispetto ai cinesi). Se la Cina continua a crescere agli stessi livelli d’oggi e i benefici di questa crescita ricadono sui suoi 1 miliardo e 300 mila abitanti, «il paese diventerà il più grande bazar della storia». Il problema è che il governo di Pechino non ha mostrato alcun interesse a sviluppare un consumatore interno: i suoi investimenti  – 600 miliardi di dollari – sono tutti rivolti ad aumentare la produttività, non a stimolare i consumi. Cioè la Cina vuole continuare a essere produttore globale.

Per di più, ha scritto in un bell’articolo sul «New Yorker» James Surowiecki (3), tutti vogliono che i cinesi  spendano di più, ma loro no, sono il contrario degli americani che vivono – indebitandosi – sempre al di sopra delle loro possibilità. Surowiecki indica alcune ragioni che spiegano la frugalità cinese. La prima è culturale – i valori confuciani –, la seconda è strutturale: ottenere prestiti in Cina è un’impresa ardua e, nonostante l’orgoglio comunista, gran parte del welfare – istruzione, sanità in testa – non è fornito dallo stato. Soprattutto, in una società labour-intensive come quella cinese, l’obiettivo unico è making stuff, fare cose, produrre. Ci sono però elementi contingenti – conclude Surowiecki – che possono invertire la tendenza: «Per la Cina risparmiare meno e spendere di più può migliorare la vita dei lavoratori oggi e rafforzare l’economia in futuro. È la cosa più rara che si possa avere in economia: un piatto gratis. La Cina dovrebbe andare avanti e mangiarselo».
 
Obama scommette che Pechino vada in questa direzione, e si prende un grosso rischio: un popolo che sta materialmente meglio – ossia protetto sia nella certezza della proprietà sia da un sistema di sicurezza sociale – potrebbe non essere nell’interesse del regime.


 
(1) http://www.theatlanticwire.com/opinions/view/opinion/Unemployment-Down-to-10-But-Will-It-Last-1803

(2) http://www.nytimes.com/2009/11/25/opinion/25iht-edreich.html?_r=1&scp=2&sq=robert%20reich&st=cse

(3) http://www.newyorker.com/talk/financial/2009/12/07/091207ta_talk_surowiecki