Pubblichiamo il nostro contributo alla rivista di geopolitica «Limes» per l’anniversario dell’insediamento di Obama: C'era una volta Obama, uscita nei primi giorni di febbraio. In estrema sintesi: il declino degli Stati Uniti è un fatto, quanto il vincolo reciproco con la Cina. Al meglio, gli americani diventeranno mezze cicale, i cinesi mezze formiche. Quanto a noi europei, nella tenaglia del G2 siamo già mezzi morti.

Si dispone di tre approcci per affrontare il problema della decadenza degli Stati Uniti. Il primo afferma che gli imperi franano sotto il peso degli impegni militari e del debito – in questo caso ci si rifà a Kennedy (1) e a Ferguson (2). Il secondo afferma che ci si era illusi che il modo di vivere liberale, quello centrato sul mercato e sulla democrazia parlamentare, si potesse imporre ovunque, dopo la caduta dell’Unione Sovietica e la conversione cinese allo sviluppo economico. In questo secondo caso ci si rifà a Fukuyama (3). Il terzo afferma che stiamo assistendo solo al ritorno del primato dell’Asia, che era l’economia dominante fino a qualche secolo fa. In questo terzo caso si mostrano le statistiche di Maddison sul peso dell’Asia fino agli albori della rivoluzione industriale (4).
 
In effetti, non avendo ancora gli umani avuto esperienza di un impero che sia mantenuto sempre in posizione dominante, si cercano le ragioni della decadenza dell’ultimo impero noto.
 
I più recenti accadimenti sembrano dare ragione a tutti e tre gli approcci: 1) gli Stati Uniti sono impegnati militarmente ovunque; 2) sono indebitati con i paesi emergenti; 3) che hanno economie ancora dirigiste e non hanno una democrazia compiuta; 4) infine, la crescita economica dell’Asia è impressionante. Si può discutere se la decadenza degli Stati Uniti sia «colpa» oppure «destino». Colpa, si sostiene, perché nessuno ha costretto gli Stati Uniti ad andare in Iraq, a lasciar fiorire un’economia centrata sull’espansione perpetua del credito, ad aprire le proprie frontiere ai prodotti asiatici senza una contropartita di natura politica; ossia, gli asiatici in cambio del volano della crescita (le importazioni degli Stati Uniti) avrebbero dovuto, secondo questa scuola di pensiero, «democratizzarsi».
 
Detto della colpa, si può anche argomentare che è stato destino. Sono colpa gli errori degli statunitensi. Ma gli errori sono stati commessi da tutti gli imperi decaduti. Avere colpa è perciò il destino degli imperi: nessuno di essi voleva, infatti, decadere.


La Cina emerge...

Chi sostituirà gli Stati Uniti? Quasi tutti pensano alla Cina e ai suoi fornitori asiatici di componenti. L’impero liberale sarà rimpiazzato da un’economia mista (statale e privata) con un unico partito a governarla. La Cina, si argomenta, ha un’economia industriale e dunque «vera», mentre gli Stati Uniti hanno troppa finanza e perciò un’economia «falsa». L’idea che il bullone sia meglio dell’obbligazione ha ancora tanti seguaci nel mondo: il sudore degli opifici è molto meglio del deodorante dei finanzieri. Andando in profondità, aleggia l’idea che il lavoro «fisico» crei «valore», mentre quello «intellettuale» sia un «trucco» per estorcere plusvalore.
 
I ragionamenti sulla forza della Cina sono spesso esagerati. Si prendano i tassi di crescita cinesi e li si confronti con quelli dei paesi ricchi. Si ha una gran differenza. Dunque si ha un’economia in crescita con le altre che sono quasi ferme. Si estrapoli la differenza e si calcoli in quanto tempo – alla fine, qualche decennio – la Cina supererà i paesi oggi ricchi.

Questo soddisfa il bisogno: 1) di chi desidera la decadenza dell’Occidente o per effetto della Cina o per il mutamento climatico; 2) di chi vuole convincere gli altri a investire i propri denari direttamente in Cina oppure nelle attività i cui prezzi salgono per effetto della Cina, come quelli delle materie prime industriali. C’è una terza categoria: si tratta di coloro che vogliono uno sviluppo rallentato del commercio internazionale per evitare che le cose si mettano troppo male e fin da subito nei paesi ricchi.
 
Apocalittici, finanzieri e comunitaristi tifano per quel che porta acqua al loro mulino: la gran crescita cinese.


... Oppure la Cina deve ancora emergere?


La discussione sul declino degli Stati Uniti contrapposto all’ascesa della Cina non tiene nel dovuto conto la differenza fra la crescita dei paesi emergenti ed emersi. I paesi emergenti possono crescere moltissimo impiegando in maniera diversa le risorse. Ma poi tutto questo non basta.
 
Per dirla maleducatamente: l’Unione Sovietica produceva in quantità trattori e carri armati, ma quando ha poi dovuto – intorno alla fine degli anni Cinquanta – produrre anche beni e servizi «di fino» non c’è riuscita. La fase iniziale della crescita è tumultuosa. Un trattore sostituisce il lavoro di cento contadini che possono andare in città, dove sono alimentati dai pochi contadini rimasti in campagna, che guidano i trattori su e giù per i campi. La costruzione forsennata di ponti, porti, strade, autostrade, aeroporti, reti elettriche e di telecomunicazione è un esempio della crescita trainata dalla riorganizzazione delle risorse.
 
Questo tipo di crescita si ha oggigiorno in Asia, ma anche in America Latina e nell’Europa dell’Est. In Nordamerica, in Europa e in Giappone la crescita da riorganizzazione delle risorse ha esaurito da tempo la propria propulsione. La libertà di movimento delle merci e del lavoro, l’effetto rete (l’insieme degli effetti d’accelerazione degli investimenti dovuti allo sviluppo contemporaneo delle infrastrutture) sono i motori della crescita che passa attraverso l’impiego diverso delle risorse. La crescita per invenzioni – il tipo di crescita che segue quello iniziale appena descritto – richiede la presenza d’imprenditori. I motori di questa crescita sono perciò un basso costo del capitale, un facile accesso al capitale, la protezione dei brevetti e della proprietà intellettuale, l’accettazione delle disparità di reddito come premio per il successo, la libertà di fallire come costo dell’insuccesso.

La crescita per invenzioni è possibile se si hanno sia l’individualismo sia la certezza del diritto. Le moltitudini cinesi devono perciò essere libere e certe dei propri diritti. Al di fuori dei paesi ricchi non si osserva ancora questo tipo di crescita.


Oppure ancora…

Fin qui il discorso è stato condotto ragionando come se 1) le economie fossero ancora a base nazionale, 2) la potenza alla fine dipendesse dall’economia, 3) gli Stati Uniti fossero in autentica difficoltà, con la Cina che sta emergendo e 4) con la parte davvero difficile della sua crescita, quella per invenzioni, che deve ancora arrivare. Bene, ora proviamo a far girare nel ragionamento la famigerata globalizzazione.

Le imprese dei paesi ricchi vogliono produrre con «qualità europea» e «costi cinesi» – l’espressione è stata usata a un convegno d’industriali (europei). Questo significa che una parte della produzione diretta – gli stabilimenti per assemblare – e di quella indiretta – le componenti sofisticate – finirà in Cina. Avremo imprese gigantesche, le cosiddette platform companies, che controllano la progettazione e la finanza e che producono anche in Cina. Avremo, insomma, tante Ikea in giro per il pianeta, con quest’ultimo non più ammorbato dalle insalubri emissioni.

La crescita per invenzioni, che la Cina non è in grado di promuovere per i propri limiti istituzionali, potrebbe arrivare lo stesso nel Celeste Impero, attraverso le imprese globali. Non è necessario perciò che le moltitudini cinesi siano libere e certe dei propri diritti. La Cina diventa l’«opificio del mondo» senza diventare una democrazia.


Crescita e debito

La nostra tesi è che gli Stati Uniti avranno un tasso di crescita inferiore a quello passato. Le famiglie debbono, consumando meno, ridurre il proprio debito. Lo Stato, che ha inizialmente bilanciato lo «sciopero dei consumatori» con la maggior spesa pubblica, dovrà nel tempo fare la stessa cosa per portare sotto controllo il proprio debito e dunque dovrà frenare la spesa o alzare le imposte. La Cina – sempre nel corso del tempo – non potrà più crescere agli enormi tassi dovuti alla costruzione forsennata di infrastrutture. Crescerà egualmente, trainata dai minori investimenti in infrastrutture e come «opificio del mondo».

Gli Stati Uniti perciò non saranno importanti come una volta, e la Cina sarà più importante. Resta inevasa una domanda. Che fine farà il debito pubblico statunitense detenuto dai cinesi in gran quantità? Immaginiamo – scolasticamente – un meccanismo equilibratore che funziona spalmato sui decenni. Nel tempo, la somma delle esportazioni nette cinesi diventa debito pubblico statunitense: i cinesi consumano meno di quanto producono. Per tenere il cambio, investono il surplus valutario in titoli del Tesoro degli Stati Uniti. Passa altro tempo e le esportazioni statunitensi verso la Cina superano le importazioni dalla Cina: ora sono gli statunitensi che consumano meno di quanto producono. Il debito con la Cina è man mano ripagato. I cinesi sono stati «formiche», ma poi diventano «cicale». Gli statunitensi, simmetricamente, sono stati «cicale», ma poi diventano «formiche». Questo è il «vincolo intertemporale» che dà a ciascuno quel che gli spetta. Il finale è «buonista» e a noi pare poco credibile.
 
Immaginiamo piuttosto che gli statunitensi si rifiutino – il loro sistema politico non regge una crescita economica modesta per un tempo protratto – di diventare «formiche». Essi fanno capire ai cinesi che non potranno riavere i loro crediti; i cinesi, pur orbi dei propri crediti, sono però diventati una potenza, grazie al sistema industriale costruito anche dagli altri che è rimasto fisicamente nelle loro mani. In questo caso, il risultato finale per i cinesi non è il massimo, non è un primo migliore: il primo migliore è quello che vede i cinesi trasformare i titoli di Stato statunitensi di loro proprietà in beni e servizi prodotti negli Stati Uniti. La conclusione per i cinesi è quella di un secondo migliore.
 
I titoli di Stato statunitensi restano nelle mani dei cinesi e vanno immaginati come il costo dell’industrializzazione accelerata della Cina. In altre parole, è come se gli Stati Uniti consolidassero il debito estero dei cinesi. Il capitale perciò non torna ai cinesi, che incassano all’infinito le cedole di loro spettanza.
 
Ai cinesi il secondo migliore può andare bene, anche perché non hanno alternativa. Infatti, i cinesi, di fronte all’evidenza che gli statunitensi non andranno in avanzo commerciale per molti anni, rendendo così impossibile la trasmutazione dei titoli del Tesoro detenuti dai cinesi in beni e servizi, potrebbero minacciare di nazionalizzare le industrie estere che si trovano in Cina. A loro volta, gli Stati Uniti potrebbero congelare il debito pubblico statunitense detenuto dai cinesi. In questo modo la Cina diverrebbe poco credibile nel mondo come luogo prediletto per investire. L’unica scelta che resta ai cinesi è perciò quella di smettere, un giorno o l’altro, di accumulare il debito pubblico degli Stati Uniti. Con il rialzo dei rendimenti delle obbligazioni pubbliche (e di conseguenza private) provocato da questa scelta, gli statunitensi diventeranno alla fine (loro malgrado) «mezze formiche». E i cinesi – per bilanciare la minore crescita statunitense – dovranno imparare a consumare di più, dovranno diventare (loro malgrado?) «mezze cicale».


E noi?

Se il ragionamento esposto ha un senso, l’Europa si troverà stretta nella tenaglia della concorrenza industriale cinese e dei rendimenti crescenti sul debito degli Stati Uniti. Questi ultimi spingeranno in alto i rendimenti delle obbligazioni di tutto il mondo. Ergo, la crescita economica europea nel campo della manifattura non sarà vispa, e il debito pubblico costerà di più.

 


(1) Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano 1999
(2) Niall Ferguson, Colossus. Ascesa e declino dell’impero americano, Mondadori, Milano 2006
(3) Francis Fukuyama, La Fine della Storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003
(4) Angus Maddison, Contours of the world economy, I-2030 AD, Oxford University Press, Oxford 2007.