La riunione detta del G20 si è conclusa. L’aspettativa che si trovasse una soluzione alle molte controversie era piuttosto bassa ed è stata confermata. Le aspettative erano basse perché trovare una «soluzione a tavolino» è piuttosto difficile, per non dire quasi impossibile. La controversia maggiore è il rapporto fra gli Stati Uniti e la Cina.
Conviene partire da un’astrazione per comprendere il caso concreto. Nel mondo ideale i paesi in via di sviluppo consumano, ma soprattutto investono più di quanti beni di consumo e d’investimento producano. La differenza sono le importazioni dai paesi sviluppati. I paesi sviluppati, invece, consumano e soprattutto investono meno di quanto producano. La differenza sono le esportazioni verso i paesi in via di sviluppo. I paesi in via di sviluppo cumulano debito – la contropartita delle importazioni – con i paesi sviluppati. Alla lunga i paesi in via di sviluppo costruiscono un apparato industriale competitivo, e quindi cominciano sia a esportare sia a consumare i beni prodotti da loro stessi. La loro bilancia commerciale diventa attiva e rendono pian piano il debito che avevano cumulato quando erano poveri.
Questo mondo ideale ha funzionato nel secondo dopoguerra, laddove i paesi in via di sviluppo erano l’Europa occidentale e il Giappone, e il paese sviluppato erano gli Stati Uniti. I cambi erano fissati, ossia si sapeva in partenza quante lire, marchi, franchi, yen, eccetera erano necessari per comprare un dollaro. Dollaro che, a sua volta e fino al 1971, aveva un rapporto fissato con l’oro.
Nel mondo reale di oggi abbiamo un’inversione. Il paese in via di sviluppo, la Cina, il cui prodotto interno lordo è circa un terzo di quello europeo e statunitense e la popolazione è molto più numerosa, invece di importare – più precisamente, invece di avere delle importazioni nette positive – esporta. Il paese sviluppato, gli Stati Uniti, invece di esportare – più precisamente, invece di avere delle esportazioni nette positive – importa. Il paese indebitato è quello sviluppato e non, come dovrebbe essere, quello in via di sviluppo. Il paese sviluppato dovrebbe quindi per anni diventare un esportatore netto per rendere il debito cumulato con il paese in via di sviluppo.
Ossia, il paese sviluppato dovrebbe consumare molto meno e quello in via di sviluppo molto di più. Gli Stati Uniti hanno un consumo che è pari a circa due terzi del loro prodotto interno lordo, mentre i cinesi hanno un consumo che è pari a meno della metà del loro prodotto interno lordo. Per anni gli statunitensi dovrebbero diventare «formiche» e i cinesi «cicale».
Nel mondo reale di oggi, oltre alla succitata inversione, abbiamo anche una complicazione. Le esportazioni cinesi dipendono anche dalla presenza degli stabilimenti statunitensi in Cina. La Cina è un gigantesco sito produttivo per le imprese estere. Le bilance dei pagamenti registrano così le esportazioni di beni cinesi negli Stati Uniti, ma non registrano tutti i redditi delle imprese statunitensi che sono legati agli impianti in Cina. Per esempio, ogni iPhone prodotto in Cina costa 20 dollari, ma è venduto a 600 dollari nel mondo. Segue che una politica di stimolo (fiscale e monetario) della domanda negli Stati Uniti che si ripercuote nell’acquisto di iPhone, accresce la domanda di lavoro in Cina e il margine di profitto del produttore statunitense, ma non la domanda di lavoro negli Stati Uniti.
Uno potrebbe pensare che i salari cinesi possono salire, ma di quanto dovrebbero salire per annullare la differenza di costo? Uno potrebbe pensare che il cambio della moneta cinese potrebbe salire, ma di quanto dovrebbe salire per annullare la differenza di costo? Oppure uno potrebbe pensare a una combinazione di maggiori salari e di cambio rivalutato. Per immaginare l’entità dell’aggiustamento dei salari e del cambio, è utile una nota statistica. Nel secondo dopoguerra i salari tedeschi e giapponesi crebbero moltissimo. Erano il 20% e il 10% di quelli statunitensi nel 1950 e poi diventarono il 60% e il 50% di quelli statunitensi nel 1970. I salari cinesi invece sono ancora pari – dopo anni di crescita vorticosa dell’economia – al 10% di quelli statunitensi.
In conclusione, ci si avvierà a una soluzione dei problemi fra gli Stati Uniti e la Cina quando i primi diventeranno «formiche» e i secondi «cicale», e quando i salari cinesi esploderanno. Come si vede, una cosa non semplice. L’idea di imporre nell’attesa che le cose si risolvano con dei paletti alle bilance dei pagamenti – la proposta del segretario al Tesoro Geithner – va giudicata in questa prospettiva. Una non soluzione, e, infatti, nessuno l’ha presa per buona. L’altra controversia è legata alla cosiddetta «guerra valutaria». Possiamo chiamarla la proposta (di fatto) di Bernanke. A differenza della proposta di Geithner, che non ha avuto un gran seguito, quella di Bernanke è stata discussa e preoccupa molto. Proviamo a esporla.
La decisione è quella di acquistare 600 miliardi di dollari di titoli del Tesoro (più altri 300, finanziati con l’investimento dei ricavi delle obbligazioni con in pancia i mutui ipotecari, obbligazioni che la banca centrale aveva comprato in passato – il Quantitative Easing 1) da parte della Federal Reserve (il Quantitative Easing 2). Lo scopo della manovra è stimolare la crescita economica e l’occupazione, anche al costo di generare una bolla. Abbiamo l’economia al centro del mondo con dei tassi d'interesse e dei rendimenti sulle obbligazioni del Tesoro intorno allo zero, che compra il proprio debito pubblico iniettando liquidità nel sistema interno e che esporta inflazione nei paesi in via di sviluppo. Infine, il QE2 “spoliticizza” il Parlamento statunitense.
Gli anelli della catena per il rilancio interno dovrebbero essere:
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La borsa sale, spinta dai rendimenti nulli sul debito pubblico; con i tassi a zero, i prezzi delle obbligazioni non possono più salire ma solo scendere, e quindi si comprano le azioni che possono sia salire sia scendere.
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La borsa che sale alimenta l'effetto ricchezza; la gente, sentendosi più ricca, consuma di più.
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Le banche non investono in titoli di stato che rendono nulla e quindi aumentano l’offerta di credito alle imprese e alle famiglie.
Gli anelli della catena dell’impatto sull’estero della manovra dovrebbero essere:
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Il dollaro è venduto per comprare attività estere con un rendimento maggiore.
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Le obbligazioni e le azioni dei paesi emergenti sono comprate e salgono molto.
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Le monete dei paesi terzi salgono – salvo quelle che hanno il cambio fisso, come lo yuan cinese.
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I cinesi debbono continuare a comprare debito pubblico statunitense anche con dei rendimenti nulli per tenere il cambio della loro moneta.
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Ai paesi in via di sviluppo arriva una gran quantità di capitali che spinge in alto le loro monete, le loro obbligazioni e le loro azioni.
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Le materie prime salgono di prezzo in dollari, perché è ridotta l’offerta. L’offerta è ridotta per strappare dei prezzi maggiori in dollari e perciò preservare il potere d’acquisto dei paesi produttori in altre monete.
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I cinesi, avendo il cambio fissato con il dollaro, acquistano materie prime alimentari ed energetiche a prezzi crescenti. Il cibo è un terzo dell’indice dei prezzi al consumo cinese.
L'inflazione è «esportata» nei paesi emergenti che, a differenza della Cina, non hanno il cambio fissato con il dollaro, nel modo seguente:
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I capitali che arrivano sono in dollari e sono cambiati in moneta locale per comprare le loro attività finanziarie. Aumenta così l’offerta di moneta, a meno che le banche centrali non ne eliminino l’impatto, vendendo obbligazioni sul mercato interno. In ogni modo, i tassi d’interesse e i rendimenti delle obbligazioni scendono.
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Tutto il resto essendo eguale, si ha una spinta a una maggior crescita trainata dagli investimenti e dai consumi, che, per i paesi emergenti vicini alla piena occupazione, produce inflazione.
Il deficit pubblico statunitense è di circa 1.200 miliardi di dollari su base annua. Il QE2 è di circa 900 miliardi di dollari per otto mesi. Le obbligazioni emesse per finanziare il debito saranno nei prossimi mesi circa pari agli acquisti del QE2.
La tentazione di non toccare le entrate e le uscite del bilancio pubblico dovrebbe perciò facilmente lambire il Parlamento statunitense. Insomma, la Federal Reserve «spoliticizza» il Parlamento. In Italia, fino ai primi anni Ottanta, il debito pubblico, offerto copiosamente, era comprato dalla banca centrale per la parte che i privati non volevano. Il potere politico poteva quindi non decidere se tagliare le spese e/o alzare le imposte. Poi arrivò il «divorzio» fra la Banca d’Italia e il Tesoro. E, da lì, il «risanamento» dei venti anni successivi.
Tutti i succitati passaggi possono essere verificati nei prossimi mesi. La manovra dovrebbe terminare a giugno 2011. E se per allora l’occupazione non crescesse, oppure crescesse ma stentatamente? Si può immaginare un proseguimento del Quantitative Easing, che possiamo chiamare QE2.bis?
L’articolo è stato pubblicato da «Limes»:
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