“Non siamo qui per cambiare il mondo, siamo qui per fare soldi”, si sente dire Jeremy dal suo capo, e all’inizio gli viene da ridere, perché è un cliché di Wall Street questo – fare tantissimi soldi, non importa come – e sembra pure un po’ datato.

Jeremy è uno dei protagonisti di “Young Money” (1), libro scritto da Kevin Roose, che è un giornalista del magazine New York che conserva lo spirito antico dei reporter che è quello di infilarsi nel mondo, osservarlo e far parlare i suoi protagonisti. Con “The Unlikely Disciple”, nel 2010 Roose aveva raccontato la sua esperienza di sei mesi come studente della Liberty University, la più grande università ultra cristiana d’America. Dopo quell’esperienza, Roose ha iniziato a interessarsi dei giovani adepti di Wall Street, i ragazzi che arrivavano dalle università carichi di sogni e di ambizioni e finivano a lavorare nella grande finanza.

“Young Money” è la storia di otto di questi ragazzi, che sono arrivati nel tempio della finanza quando la bolla dell’irresponsabilità era già scoppiata, ma l’atteggiamento non era cambiato (gli stipendi sì, soprattutto per i giovani): “Qui non siamo né morali né immorali, vale l’amoralità”, dicono i protagonisti del libro, che però non riescono a farsi ammaliare dal fascino di Wall Street, anzi spesso ne escono battuti.

Se avete visto “Il lupo di Wall Street” al cinema, dovete immaginare l’esatto contrario di Jordan Belfort. Lui inizia ripetendo il mantra del suo boss al ristorante, battendosi il petto col pugno solo per emulazione, mentre il capo gli spiega l’arte del fare soldi e soprattutto dello stare vigili a suon di colpi di cocaina (battersi il pugno sul petto è un gesto che torna spesso). Lui impara presto, all’inizio soffre, viene rigettato, ma poi supera i maestri, si trasforma in lupo e alla fine arriverà la giustizia a regolare i conti. Se si fa eccezione per l’incontro del Kappa Beta Phi cui l’autore entra, “e fa molto lupo di Wall Street”, come ha detto in un’intervista (2), i ragazzi di “Young money” hanno tutto un altro spirito, e molte debolezze: uno arriva a pensare al suicidio e quando riesce a cambiare lavoro invece che ammazzarsi dice: “L’incubo è finito”.

Non si tratta soltanto di un’analisi psichiatrica dei ragazzi – “dovrebbe comunque essere pagato per questo, Roose”, scrive Nick Summers recensendo il libro (3) – ma di un saggio social-culturale di come è cambiata l’America dopo il crash finanziario. Alcuni dei protagonisti del libro lasciano Wall Street per andare nella Silicon Valley, non per motivi etici naturalmente, ma perché dall’altra parte del paese si sta muovendo un mondo che attira i giovani ambiziosi esattamente come Wall Street ne attirava negli anni Ottanta (non a caso Tom Wolfe, ineguagliabile romanziere di quei “master of universe” di Wall Street nel “Falò delle vanità” ha scritto che i nuovi padroni dell’universo sono i ragazzi con la felpa della Silicon Valley (4)).

Per i “millenials” Google è la nuova Goldman Sachs, e questo vale anche per gli investitori. Alcuni protagonisti soccombono, prendono malattie rare e si convincono che siano gli orari di lavoro – interminabili – la causa principale del collasso del sistema immunitario. Soprattutto ci sono i prestiti universitari da pagare – e sono alti, nonostante gli annunci obamiani – e Wall Street sembra la via più facile per rientrare del debito entro tempi brevi.

Oggi i banchieri sono molto più specializzati e professionali: una volta c’erano i “banchieri accidentali”, ora invece il livello di competenza iniziale è molto più alto: ti devi essere preparato, per provarci insomma. Pure così non è detto che ce la si fa: la soglia è due anni. Se sei sopravvissuto, è probabile che farai carriera.

 

(1) http://www.amazon.com/Young-Money-Streets-Post-Crash-Recruits/dp/0446583251

(2) http://dealbook.nytimes.com/2014/02/17/a-conversation-about-young-wall-streeters/

(3) http://www.businessweek.com/articles/2014-02-13/book-review-young-money-by-kevin-roose

(4) http://mag.newsweek.com/2013/01/04/eunuchs-of-the-universe-tom-wolfe-on-wall-street-today.html