Dopo aver commentato l’altro ieri la promessa di rivalutazione della moneta cinese, passiamo all’altro ex gigante socialista. Molti pensano che la Russia debba ancora prendere consapevolezza delle proprie enormi potenzialità economiche al di fuori del campo energetico. Può essere. Ma per passare dall’auspicio della crescita a una vera crescita economica si deve poco alla volta smantellare la «verticale di potere» che si è costituita negli ultimi anni. E qui è ragionevole essere scettici.
La Russia è essenzialmente un esportatore di materie prime energetiche. Grazie ai loro prezzi elevati, gli introiti valutari sono cresciuti moltissimo e le riserve ufficiali sono diventate consistenti. Anche le entrate fiscali dipendono essenzialmente dalle materie prime, perciò si è avuto un forte miglioramento dei conti pubblici. Mosca ha rimborsato una parte del debito estero e ridotto il debito pubblico. Il «boom di Putin» nasce così, e accompagna la fondazione del «putinismo».
Il «putinismo» è quel sistema che fonde l’élite che viene dagli apparati di sicurezza con quella delle grandissime imprese dell’energia, le quali, a loro volta, controllano una buona parte del sistema mediatico. Questa fusione è il «potere forte» russo. Il potere politico aiuta la crescita del settore energetico, che fornisce in cambio le risorse al potere politico, che, a sua volta, isola i comunisti e i liberali, accusando i primi della decadenza dell’Unione Sovietica, i secondi della miseria e la «svendita» dei beni dello stato ai tempi di Yeltsin. Insomma, il putinismo è una specie di convergenza al centro.
Un centro non da intendere come moderatismo, come se fosse un democristiano stretto fra comunisti statalisti e liberali libertini, ma come il ritorno della forza della nazione. I comunisti e i liberali sono in qualche modo degli universalisti, non dei veri nazionalisti. Pensano infatti che chiunque possa godere dei beni del progresso. Nella retorica putinista, altro segnale interessante, il disordine viene assimilato al parlamentarismo. Essa ricorda il politico e diplomatico spagnolo Donoso Cortez, il quale, nel primo Ottocento, definiva la borghesia come la classe che (sa solo) discute(re). Una classe, secondo lui, che, messa di fronte alla scelta fra Gesù e Barabba, invece di decidere dove stia il bene e dove il male, organizza una commissione parlamentare.
Il putinismo, per come è strutturato – una «verticale di potere», infastidita dalle molte lungaggini del parlamentarismo, che privilegia la concentrazione delle grandissime imprese sotto l’ombrello statale –, non riesce a favorire la crescita di una società civile avanzata, fatta di imprese medie e piccole, e di ceti che svolgono molte attività professionali, capace di promuovere uno sviluppo indipendente dall’energia.
Le statistiche mostrano come le esportazioni siano per due terzi di gas e petrolio, mentre viene importato pressoché tutto, dai cavoli alle automobili. Un sistema che può anche funzionare, se la popolazione è scarsa e i lavori manuali vengono svolti da immigrati senza diritti.
Ma la Russia non è un emirato. Non può optare per il modello dell’emirato né per quello cinese. Nel primo caso la popolazione è troppo numerosa, e, comunque, la grande ambizione lo impedisce. Nel secondo, manca un apparato industriale distribuito in molti settori, e che cresca col contributo degli investimenti esteri.
Il sistema politico russo dovrebbe inventarsi un terzo modello, che combini la ricchezza energetica con lo sviluppo diffuso. Per ora non sembra che sia in grado. Va detto che non è nemmeno facile. La ricchezza energetica frena lo sviluppo democratico, a meno che i paesi non siano democratici da ben prima della scoperta del petrolio, come gli Stati Uniti e la Norvegia.
La ricchezza energetica genera, infatti, dei redditi cospicui, che sono incamerati dagli stati e che sostituiscono in buona parte le imposte. I cittadini pagano le imposte, i sudditi raccolgono le regalie. Il pagamento delle imposte alla fine porta alla rappresentanza politica. Le regalie, invece, inibiscono la rappresentanza e quindi la democrazia. Mancando la democrazia si ha poca «certezza del diritto», e alla fine un minore sviluppo economico.
In due parole, la ricchezza energetica alimenta una «verticale di potere» che inibisce il formarsi del «potere orizzontale», che è quello che promuoverebbe la diversificazione dell’economia russa.
L’articolo è uscito il 25 giugno anche su:
http://temi.repubblica.it/limes/russia-la-ricchezza-energetica-e-la-democrazia/13431
Il «putinismo» è quel sistema che fonde l’élite che viene dagli apparati di sicurezza con quella delle grandissime imprese dell’energia, le quali, a loro volta, controllano una buona parte del sistema mediatico. Questa fusione è il «potere forte» russo. Il potere politico aiuta la crescita del settore energetico, che fornisce in cambio le risorse al potere politico, che, a sua volta, isola i comunisti e i liberali, accusando i primi della decadenza dell’Unione Sovietica, i secondi della miseria e la «svendita» dei beni dello stato ai tempi di Yeltsin. Insomma, il putinismo è una specie di convergenza al centro.
Un centro non da intendere come moderatismo, come se fosse un democristiano stretto fra comunisti statalisti e liberali libertini, ma come il ritorno della forza della nazione. I comunisti e i liberali sono in qualche modo degli universalisti, non dei veri nazionalisti. Pensano infatti che chiunque possa godere dei beni del progresso. Nella retorica putinista, altro segnale interessante, il disordine viene assimilato al parlamentarismo. Essa ricorda il politico e diplomatico spagnolo Donoso Cortez, il quale, nel primo Ottocento, definiva la borghesia come la classe che (sa solo) discute(re). Una classe, secondo lui, che, messa di fronte alla scelta fra Gesù e Barabba, invece di decidere dove stia il bene e dove il male, organizza una commissione parlamentare.
Il putinismo, per come è strutturato – una «verticale di potere», infastidita dalle molte lungaggini del parlamentarismo, che privilegia la concentrazione delle grandissime imprese sotto l’ombrello statale –, non riesce a favorire la crescita di una società civile avanzata, fatta di imprese medie e piccole, e di ceti che svolgono molte attività professionali, capace di promuovere uno sviluppo indipendente dall’energia.
Le statistiche mostrano come le esportazioni siano per due terzi di gas e petrolio, mentre viene importato pressoché tutto, dai cavoli alle automobili. Un sistema che può anche funzionare, se la popolazione è scarsa e i lavori manuali vengono svolti da immigrati senza diritti.
Ma la Russia non è un emirato. Non può optare per il modello dell’emirato né per quello cinese. Nel primo caso la popolazione è troppo numerosa, e, comunque, la grande ambizione lo impedisce. Nel secondo, manca un apparato industriale distribuito in molti settori, e che cresca col contributo degli investimenti esteri.
Il sistema politico russo dovrebbe inventarsi un terzo modello, che combini la ricchezza energetica con lo sviluppo diffuso. Per ora non sembra che sia in grado. Va detto che non è nemmeno facile. La ricchezza energetica frena lo sviluppo democratico, a meno che i paesi non siano democratici da ben prima della scoperta del petrolio, come gli Stati Uniti e la Norvegia.
La ricchezza energetica genera, infatti, dei redditi cospicui, che sono incamerati dagli stati e che sostituiscono in buona parte le imposte. I cittadini pagano le imposte, i sudditi raccolgono le regalie. Il pagamento delle imposte alla fine porta alla rappresentanza politica. Le regalie, invece, inibiscono la rappresentanza e quindi la democrazia. Mancando la democrazia si ha poca «certezza del diritto», e alla fine un minore sviluppo economico.
In due parole, la ricchezza energetica alimenta una «verticale di potere» che inibisce il formarsi del «potere orizzontale», che è quello che promuoverebbe la diversificazione dell’economia russa.
L’articolo è uscito il 25 giugno anche su:
http://temi.repubblica.it/limes/russia-la-ricchezza-energetica-e-la-democrazia/13431
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