Il titolo di stato italiano a lungo termine rende il 5%. Chi lo compra (chi se lo tiene è come se lo comprasse) ottiene un rendimento reale (al netto dell’inflazione, che possiamo immaginare intorno al 2% – l’obiettivo della Banca Centrale Europea) lordo (inclusivo delle imposte) intorno al 3%. Il Bund con gli stessi criteri rende l’1%. Un rendimento non modesto per un titolo che scade in un decennio. Eppure ultimamente ha meno acquirenti. Come mai? Il timore è che ci sia un rialzo dei rendimenti nei paesi europei poco virtuosi. In questo caso chi possiede il BTP potrebbe perdere se il rendimento salisse (perderebbe in conto capitale e non in conto reddito; le cedole sono fisse e quindi un’obbligazione, per alzare il rendimento, deve scendere di prezzo). L’andamento opposto a quello immaginato da chi compra il Bund.
All’origine del rischio sui BTP si ha questo intreccio: gli acquirenti nazionali, diventati più scettici, ne comprano meno, e dunque aumenta il peso di quelli esteri, che sono scettici. Il prezzo del BTP si forma al margine, ossia con una transazione che non muove tutto lo stock, ma solo una parte minuscola. Come il prezzo di borsa che è determinato dagli scambi puntuali del giorno, che sono una quota minuscola delle azioni emesse – del flottante.
Si ha anche un altro fenomeno. Coloro che pensano che sul debito dei paesi europei meno virtuosi si possa guadagnare al ribasso (i prezzi che scendono e quindi i rendimenti che salgono) andranno sul debito più liquido (più facilmente scambiabile), ossia su quello italiano. Si intrecciano così giudizi di merito sul risanamento del debito italiano e modalità operative nella pressione al ribasso sul BTP.
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