Su Twitter la buttano sul ridere: «La Tunisia ha appena concluso l’accordo col Fondo monetario. Stanno sempre un passo avanti a noi». Anche quello fra Mohammed Morsi e Christine Lagarde è un matrimonio che s’ha da fare. Il problema è il come, e soprattutto il quando. Le ultime voci filtrate da Washington danno il prestito concluso entro maggio. Ma vai a fidarti, per un accordo che slitta di settimana in settimana ormai dallo scorso novembre.
Dall’inizio della rivoluzione Il Cairo ha bruciato due terzi delle sue riserve di valuta estera. Dai 36 miliardi di dollari del gennaio 2011 ai 13,4 di fine marzo 2013: quasi 900 milioni al mese, un’emorragia che lascia oggi l’Egitto con la garanzia di riuscire a coprire solo pochi mesi di importazioni. I soldi di Washington – pochi, maledetti e subito – servono come il pane. Si tratta sulla base di 4,8 miliardi da restituire con un interesse compreso fra l’1,1 e l’1,5 per cento. «Una goccia nel mare» sintetizza il Financial Times, ma disperatamente necessaria. Sia il Fondo sia il governo egiziano sono convinti che la conclusione del prestito tranquillizzerebbe i mercati sulla tenuta del Paese, fungendo da catalizzatore per altri 15 miliardi di aiuti.
Il Fondo monetario pone come condizione per il prestito una profonda riforma dell’economia. L’opera di risanamento deve vertere sul taglio dei sussidi, cibo e carburante in testa. Una misura logica dal punto di vista economico, che rischia però di scatenare la «rivoluzione degli affamati», per dirla col prof. Salah Gouda, direttore dell’Egyptian Center for Economic Studies.
L’Egitto spende ogni anno quasi un quinto del suo budget solo per gli aiuti sul carburante. L’insieme dei sussidi costituisce la voce più importante del bilancio – al netto dei fondi destinati alle Forze armate, segreti per disposizione costituzionale. Il Cairo è il primo importatore di grano al mondo, e riesce a garantire un prezzo politico per il pane solo grazie ai sussidi, in un Paese in cui la famiglia media spende la metà delle sue entrate per nutrirsi. Lo stesso vale per gli aiuti sul carburante, che alimentano industrie, automobili, generatori, macchinari agricoli, i minivan che sopperiscono all’assenza dei trasporti pubblici e così via. Oggi un litro di diesel in Egitto si paga 16 centesimi: secondo i calcoli del Fondo, l’eliminazione degli aiuti ne quintuplicherebbe il costo.
Il precedente impronunciabile sono le Rivolte del Pane (gennaio 1977): 79 morti nelle proteste seguite al taglio dei sussidi per il cibo, come richiesto da Fmi e Banca mondiale. Tempo 48 ore, e Sadat fu costretto alla retromarcia. L’Egitto di allora, messo a confronto con la realtà odierna, appare un miracolo di stabilità. Il governo dei Fratelli musulmani non dispone certo dell’autorevolezza e della forza necessarie a realizzare una riforma così drastica. Soprattutto prima delle prossime elezioni, previste per ottobre.
E però, o di riffa o di raffa, non sembra che al Cairo egiziano restino molte alternative. Una volta prosciugate le riserve di valuta estera, i sussidi spariranno comunque, come i beni che oggi – pur fra mille e una difficoltà – l’Egitto riesce ancora a importare. Gli aiuti a pioggia sono inefficienti: Masood Ahmed, direttore del dipartimento mediorientale del Fmi, ha calcolato che nei Paesi arabi solo una quota compresa fra il 20 e il 35 per cento dei sussidi raggiunge il 40 per cento più povero della popolazione. In altre parole, i sussidi finiscono per privilegiare quella fascia di cittadini che non avrebbe bisogno di sostegno. «I poveri vanno compensati con i soldi che si risparmiano smettendo di finanziare anche i più ricchi» ha detto Carlo Cottarelli, direttore del Dipartimento affari fiscali del Fondo. Come? Investendo in un vero welfare state, o con trasferimenti diretti di denaro. Un’opera titanica di redistribuzione della ricchezza che richiede una forza politica sconosciuta al governo di Hesham Qandilegiziano.
Nei primi quattro mesi del 2013, la sterlina egiziana ha perso il 10 per cento del suo valore. Finora il Cairo ci ha messo una pezza con gli aiuti racimolati in altre capitali musulmane (Doha su tutte, ma anche Ankara e Tripoli). Buona parte di questi finanziamenti, secondo il Daily News Egypt, sono serviti a tappare la voragine di 5 miliardi di debiti aperta con le compagnie petrolifere straniere. Il paradosso di tutta la vicenda è che, mentre il Paese continua a indebitarsi per l’importazione di materie prime, la sua produzione di gas e petrolio è in picchiata: per estrarre servono capitali e sicurezza, due beni di cui il Cairo non dispone più.
Il costo dell’instabilità politica si fa sentire su altre due attività cruciali per l’importazione di valuta estera: il turismo, che prima della rivoluzione valeva più del 12 per cento del Pil, oggi è evaporato; e perfino il Canale di Suez, fra rivolta di Port Said e minaccia pirateria, rende al di sotto delle attese: a marzo l’Autorità del Canale ha registrato una perdita del 12,3 per cento rispetto ai guadagni del marzo 2012.
Il risultato di questo panorama disastroso è il fiorire del mercato nero. Al Cairo, giusto per fare un esempio, i tassisti sono costretti a sorbirsi file di quattro ore per avere accesso al carburante a prezzo di sussidio. E sempre più spesso, lungo queste file chilometriche, si registrano risse mortali.
Il presidente Morsi non sembra avere molta scelta: Fondo monetario o meno, l’economia va scossa dalle radici. La sola possibilità perché questo avvenga, suggerisce l’Economist, è la formazione di un governo che comprenda tecnocrati e politici di opposizione: tutti insieme a dividere i frutti avvelenati di un terremoto tanto necessario quanto impopolare. Possibile? Da quando hanno assunto il potere, gli Ikhwan hanno diviso come e più del vecchio regime, regnando sulle macerie di un Paese mai tanto polarizzato. Difficile anche solo concepire l’idea di un governo di unità nazionale in un contesto del genere. Nessuna alternativa, però, appare più gradevole: che si tratti della «rivoluzione degli affamati» o di un nuovo putsch militare.
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