Il coronavirus potrebbe azionare la leva del risentimento e così sublimare la presa di potere da parte del populismo?

Finora le esperienze populistiche al governo hanno acquisito consenso alimentando il fuoco delle ingiustizie sociali contingenti. La casta dei privilegi e della corruzione è stata identificata, dalla moltitudine (i many) degli innocenti, come la responsabile dell’ingovernabilità degli Stati e del depauperamento del Welfare. Composte da professionisti di lungo corso della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia, eccetera, e indottrinate da idee neo-liberali, le élite sarebbero colpevoli del propagarsi della globalizzazione, con i suoi effetti più nocivi.

Il disagio tra i many – che, per obiettività di analisi, non possono dirsi immuni da casi di inefficienza, privilegi e improduttività – è emerso con la consapevolezza che, a causa dell’esubero del debito pubblico, lo Stato sociale non può più permettersi di aiutare i meno fortunati (pensionati, categorie protette di lavoratori, titolari di un’assistenza sanitaria di lunga durata).

Contestualmente è emerso un nuovo fenomeno: l’economia della conoscenza, caratterizzata da “un numero crescente di cittadini ad alta istruzione, economie molto aperte all’estero con un alto tasso di finanza, nonché liberalizzate in misura crescente” (1). In questa economia, la mobilità sociale è molto più esposta ai rischi. Che si tratti di un individuo del ceto basso, medio o alto, i fattori di ascesa o discesa sociale non sono più due (redistribuzione del reddito e patrimonio personale), ma vi si aggiunge la competenza professionale. Come spiegato nell’articolo già citato, “la politica economica di questi ultimi decenni ha contribuito a redistribuire a sfavore dei meno abbienti il reddito, la ricchezza, e anche, e forse questa è la cosa più importante, le opportunità”.

Indentificandovi un potenziale nuovo conflitto di classe e di conseguenza una possibile strada per capitalizzare il sostegno delle masse, i populismi hanno sfruttato questo sentimento di rabbia diffusa, facendo delle élite il proprio bersaglio. Alle classi dirigenti è stata contestata:

  1. La lunga permanenza nelle posizioni chiave delle istituzioni (alla politica come professione è stata contrapposta l’inesperienza virtuosa del cittadino bon sauvage);
  2. La scelta di elaborare politiche immigratorie che hanno determinato l’ingresso di lavoratori non qualificati, che fanno concorrenza alla manodopera locale;
  3. La strategia di automazione dell’economia, finalizzata a estromettere dal mercato i lavoratori non qualificati.

 

Stando così le cose, riprendiamo la domanda iniziale: il coronavirus è un acceleratore del risentimento e quindi un facilitatore per l’affermazione di governi o regimi populistici?

Il Covid-19 non è un virus democratico e globale. Nonostante la sua diffusione pandemica, la sua presenza non è omogenea tra Stato e Stato, regione e regione, e tanto meno tra categorie sociali. Il fenomeno manca quindi della caratteristica di livella che gli permetterebbe di effettuare un default globale del sistema capitalistico, da cui poi far partire un “mondo nuovo”. Inoltre, quest’ultimo, che potrebbe emergere con la ritrovata normalità, molto probabilmente sarà figlio del modello capitalistico passato, e le cui anticipazioni erano già visibili prima della pandemia. In termini di mercato del lavoro, istruzione, modalità di fare impresa. Smart working, lauree e competenze tecnico-scientifiche, industria 4.0. Nulla di tutto questo è iniziato con il Covid-19.

Inoltre, i populisti non corrispondono all’identikit di quei “banchieri dell’ira”, così definiti da Peter Sloterdijk in “Ira e Tempo”, che sono invece determinanti nella visione di una stravolgente rivolta contro l’attuale ordine delle cose. Non sono stati in grado infatti di razionalizzare l’impulsività delle energie vendicatrici del presente e trasformarle, con pazienza, in una teoria rivoluzionaria da compiersi in un futuro radioso. Non hanno saputo profetizzare il miraggio del Sol dell’Avvenire.

La rabbia alimentata finora si è rivelata un fuoco di paglia rispetto a quella che è la vera frustrazione, un risentimento primordiale (il ressentiment di Nietzsche) non sufficientemente identificabile con livori di classe, odi razziali e incognite economico-finanziarie. A una paura reale, com’è appunto una pandemia – o come avrebbe potuto essere una guerra per le generazioni passate – nemmeno i populisti hanno saputo dimostrare di avere un piano d’attacco.

 

Ma entriamo ancor più nel dettaglio.

C’è un presente in cui la società è una bomba a orologeria. Dopo tre settimane di clausura, cadenzate da una paura reale, con fake news e una fallimentare strategia di crisis communication, gli equilibri della collettività e individuali sono messi a dura prova. Le improvvise novità introdotte in ambiente domestico – smart working, presenza di figli in casa tutto il giorno, assenza di relazioni affettive se non online – rappresentano potenziali focolai di esasperazione.

C'è un passato, fatto di quei risentimenti pregressi spiegati poche righe fa. È un database di ire e sentimenti negativi, che – se investiti bene – potrebbero tornare utili a populismi e sovranismi. Tuttavia, non possono essere il vero canale lungo cui far defluire la corrente del cambiamento. La rivoluzione infatti si palesa nel momento in cui il soggetto – singolo o collettivo – prende atto di ciò che era (passato), lo rigetta (presente) e così si vede proiettato in quel che vorrà essere (futuro).

E c’è infatti un futuro. In tal caso però, è necessario fare un’analisi costi-benefici. Ovvero bisogna chiedersi quanto convenga ai populisti odierni giocare tutto sullo Zero alla roulette. Quanto il Covd-19 può dar loro il coraggio per buttare il cuore oltre l’ostacolo e quindi chiamare le folle in strada? Nota bene: dalla strada delle forche non si torna indietro. E va tenuto presente che, per identità politica, estrazione sociale, fino addirittura curriculum personale, nessuno dei populisti attuali si sta dimostrando un forcaiolo. Alcuni infatti – sconfessando il loro passato recente – occupano posizioni chiave in seno all’establishment. Mettendo così in discussione la tesi per cui le élite sarebbero a tenuta stagna rispetto ad accogliere forze fresche esogene. Altri non dispongono di un patrimonio elettorale e ancor meno di un sostegno economico sufficienti per potersi muovere in autonomia. E comunque anche in questo caso, non si ha a che fare con soggetti disposti a mollare gli ormeggi verso terre ignote.

Tuttavia, non va esclusa l’opzione per cui il timer della bomba sociale si accenda da solo. Frustrazione, esaurimento, sfiducia. È come un incendio non doloso, basta una scintilla accidentale e il fuoco comincia ad ardere. Difficile però che si arrivi a un falò di grandi dimensioni. Mancano gli assetti globali. Sarajevo non ripete. Il livello di frustrazione sociale, per quanto da monitorare, non ha raggiunto la soglia dell’allarme rosso. I Vespri siciliani si celebrarono in un regno dove popolo e nobili avevano entrambi superato il limite di sopportazione dello straniero. In senso più generale, la storia non giunge in aiuto. Non ci si ricorda infatti di un avvenuto sovvertimento degli ordini costituiti a causa di una pestilenza. Infine va sottolineato l’handicap tutto italiano della debolezza del sistema-Paese. Da qui l’assenza speculare di un anti-sistema-Paese.

Questo non esclude eventuali disordini sociali. Non si può prevedere la reazione maggioritaria in caso di fallimento del lockdown. Oppure di una sua prosecuzione sine die. Riprendendo l’adagio manzoniano del vero per soggetto, un assalto al forno delle grucce potrebbe non essere un esercizio di fantasia. Ma, come appunto succede nel romanzo, potrebbe limitarsi a casi isolati. Episodi male assortiti di falsi untori, (l’anziana che esce ed è presa a bastonate, l’homeless che dorme per strada, meglio se straniero, i ragazzi che assaltano un pub in astinenza da birra, già accaduto in Gran Bretagna). Si tratterebbe di monadi innocenti contro cui si riversa un’ira che necessita di essere sfogata. Per chi studia le rivoluzioni o più in generale il comportamento delle masse, questi casi andrebbero catalogati come occasioni sprecate. Momenti drammatici che i populismi non riescono a capitalizzare.

Per produrre energia, il risentimento richiede manualità. Profeti, condottieri, capitani di vario genere – i banchieri dell’ira, si diceva – sono quei professionisti della storia in grado di elaborare la giusta sintesi tra l’emotività collettiva e il tempo. E il tempo del Covid-19 non è quello giusto per fare dei populisti dei nuovi eroi della rivoluzione.

Finora le masse sono state guidate dai banchieri dell’ira, come alle volte anche dalle élite – è il caso della Chiesa cattolica e dei partiti comunisti – con la promessa di un domani radioso. Vita eterna e Sol dell’avvenire sono futures con cui il risentimento delle masse è stato amministrato. Spesso anche con accortezza e buoni risultati. Le asperità della condizione degli ultimi in terra, come quelle degli operai venivano ammorbidite dalla certezza di un appuntamento ideale con un domani di salvezza e riscatto.

E c’è infatti chi tra i populisti promette che la tecnologia sia la nuova terra promessa. Ma è anch’essa una finta profetessa in fatto di rivoluzione. Ancor più se si pretende che l’epidemia sia l’élan vitale per la vittoria dei populismi.

Va ricordato infatti che la tecnologia, in quanto sorella della scienza, è comunque figlia delle élite. Richiede inoltre una preparazione pratica e professionale da parte dell’individuo, il quale si trova emancipato e quindi vaccinato rispetto all’illusoria predestinazione di salvezza delle masse. L’homo technologicus – da non confondere con l’uomo social – non è più l’uomo della strada (o della rete), il cui pensiero singolo va a nutrire l’opinione collettiva (qualunquismo). La sua competenza tecnica è la conseguenza nella vita pratica di una condizione esistenziale di rigenerazione. Risultato ultimo di una ricerca, già in passato affrontata per altre vie. Mai raggiunta e – perché dovrebbe? – nemmeno ora soddisfatta.

Secondo l’economia della conoscenza, la tecnologia è uno strumento di ascesa sociale. È una scelta di libertà. Chi impone a ciascuno di noi un cellulare, una mail, un account social? È una condizione per poter far parte dell’odierna società tecnologica? Forse. Ma questo da un lato richiede capacità di utilizzo dei dispositivi (skills), dall’altro non esclude la via estrema dell’ascetismo e dell’isolamento.

Infine, va ricordato che è grazie a questa pandemia che scienza e tecnologia sono tornate a occupare la loro poltrona di prima fila nella società. Confutando il precetto populista e totalitario dell’uno vale uno, competenza e meritocrazia hanno avuto il loro riscatto.