Ben Bernanke dichiarò che le cose erano sotto controllo, e anche per i mercati azionari la cura del solo tasso d’interesse sembrava essere sufficiente, tanto che il massimo dei prezzi dal 2000, quello dei tempi di Bill Clinton e della Tecnologia, fu raggiunto proprio nell’autunno del 2007. Così finisce il primo atto, che non scuote la fiducia nel sistema di nessuno. Nemmeno dei cinesi, che fino ad allora compravano, per tenere stabile il cambio dello yuan con il dollaro, le attività finanziarie più rischiose, come i titoli del Tesoro a lungo termine.
Inizia il secondo atto, s’intravede che le cose brutte non sono circoscritte a mutui strambi per ispanici e per afroamericani vogliosi di comprare per la prima volta una casa senza garanzie. Il secondo atto dura fino all’autunno del 2008. Uno scuotimento del sistema non lo s’intravede lo stesso. La riprova è che la borsa statunitense, che aveva raggiunto i 1.450 punti l’anno prima, stava ancora intorno ai 1.200 punti. Una flessione banale, compatibile con un ciclo di rialzo. La crescita economica, infatti, continuava. I cinesi non erano ancora usciti dai titoli di stato lunghi (l’equivalente del BTp) per comprare i titoli di stato corti (l’equivalente del BoT), che è come affermare che non vogliono scommettere su orizzonti temporali più lunghi di qualche trimestre. Nella primavera del 2008 esplodeva il prezzo del petrolio, che segnalava che i paesi in via di sviluppo consumavano e dunque crescevano.
La fase dell’asta e i cattivi
Il secondo atto finisce prima dell’autunno del 2008 senza che le cose avessero ancora preso una piega drammatica. Si sapeva che le crisi nate nel settore immobiliare si riverberano sui bilanci delle banche, che le banche reagiscono riducendo il credito, e dunque che alla fine l’economia cresce meno, ma nessuno ci faceva veramente caso.
Potremmo affermare che la crisi è stata lenta a manifestarsi, e che in seguito abbia accelerato. Non si è ancora capito bene che cosa l’abbia resa prima poco visibile e poi drammatica. Esponiamo l’ipotesi che sembra la migliore.
Primo passaggio. I modelli di controllo del rischio, che sono alla base dell’elevata esposizione del sistema finanziario nelle obbligazioni dalle sigle impronunciabili, quelle piene di mutui, sono costruiti sull’assunto che quel che accade a un’attività finanziaria non possa riverberarsi completamente sulle altre. La conclusione è che una crisi, se c’è, resta «locale» e non diventa «globale». Se una casa automobilistica fallisse, le sue obbligazioni varrebbero poco, ma le obbligazioni delle imprese che forniscono l’industria, come quelle dei pneumatici e quelle che affittano automobili, ne sarebbero toccate, ma marginalmente.
Secondo passaggio. Come valutare le obbligazioni dalle sigle impronunciabili? Chi le valutava di professione, lo faceva per conto degli emittenti e dunque, se avesse affermato che erano poco attraenti, non sarebbe stato pagato. Si era creata così una sorta d’asta dove vinceva l’offerta con la valutazione migliore. Infine, chi fosse stato sospettoso sulla qualità delle succitate obbligazioni, giudicate ottime dalle società di rating, avrebbe potuto assicurarsi. Fossero mai fallite le imprese emittenti, si sarebbe preso indietro i propri denari. Ecco il mercato che assicura le obbligazioni, quello dei credit default swaps, nel quale tempo dopo si è scoperto che non si facevano gli accantonamenti necessari.
I discutibili modelli di controllo del rischio, le agenzie di rating che davano solo voti alti e gli assicuratori che non accantonavano sono i «cattivi» del terzo atto. L’atto terzo diventa drammatico con l’autunno del 2008.
Le banche si dichiarano in difficoltà. Fatto per sé rilevante, soprattutto se si verifica mentre si elegge il nuovo presidente. Il sistema finanziario «torbido» è un’arma propagandistica di grande effetto, specie se condita con la denuncia di retribuzioni da nababbi. La finanza non produce niente, mentre noi, maschi nerboruti e fattrici senza grilli per la testa, sudiamo producendo beni veri – è un classico del populismo. Un’arma che può essere usata, ma fino a un certo punto. Un populista può sognare di abolire la finanza in un paese arretrato, in uno sofisticato si deve accontentare di riformarla.
La finanza negli Stati Uniti è ovunque, è alla base dei «servizi abitativi» e delle pensioni. Si compra casa con un sistema sofisticato di mutui, la si vende prima di andare in pensione e, con i denari ricavati e con le azioni cumulate negli anni, si finanziano gli anni di riposo. Il sistema sociale ruota sui mercati finanziari. In Italia si aveva l’equo canone e si ha l’Inps. Negli Stati Uniti, Ben Bernanke cerca di abbassare il costo dei mutui comprando le obbligazioni di Fannie Mae (il suo equo canone) e spera di riuscire a rilanciare in fretta l’economia e quindi la borsa (le azioni sono la sua Inps). La tesi che dietro la politica economica statunitense ci sia la spectre dell’alta finanza non spiega l’attivismo della politica economica. Le masse degli elettori ruotano per la propria vita materiale intorno ai mutui e al Dow Jones. Dunque negli Stati Uniti il populismo finanziario funziona, ma fino a un certo punto.
Tutto crolla e lo stato corre in soccorso
Siamo al dunque. Dall’autunno in poi le banche vengono soccorse dalla banca centrale e dal Tesoro. La banca centrale accettava allo sportello, dove avevano accesso le banche ordinarie, come garanzia, solo i titoli del Tesoro. Poi man mano inizia ad accettare anche titoli di minor qualità. La Fed dunque taglia i tassi d’interesse a zero e comincia ad assorbire i titoli meno sicuri. In questo modo conta di rendere «liquido» il sistema finanziario. Crea oggi moneta da riassorbire in futuro, rivendendo i titoli che ha comprato. Il bilancio della banca centrale agisce da «spugna» per facilitare l’attività delle banche. Ben Bernanke in un’intervista dice che prima si sopravvive e poi si punisce chi ha sbagliato.
Diverso è il caso del Tesoro, che, per finanziare le banche, deve emettere obbligazioni, e dunque deve far passare le proprie manovre fiscali al Congresso. Il quale Congresso alla fine chiede che vi sia un controllo dei risultati. In conclusione, abbiamo le banche in crisi e gli aiuti che arrivano da due entità, una non eletta e l’altra eletta. Per arrivare ai nostri giorni, le banche, soccorse dallo stato, debbono superare un test di sopravvivenza. Si prende lo scenario economico peggiore, medio e migliore e si vede come vanno i conti delle banche. Se sono messe in ginocchio, allora lo stato interviene, altrimenti le lascia stare. Nessuno conosce i risultati di questi test, ma è questione di giorni. Sui test di sopravvivenza divampa la polemica, perché alcuni li trovano troppo morbidi.
Per inquadrare le ultime vicende, si tenga conto che i tassi d’interesse praticati dalla banca centrale sono molto bassi; che la banca centrale fa di tutto per schiacciare il costo dei mutui; che sono passate regole contabili che permettono di non valutare ai prezzi di mercato le attività più disastrate. Ergo, le banche guadagnano di più a prestare il denaro, perché lo pagano meno; le banche guadagnano di più sui mutui, perché sono rinegoziati a condizioni più favorevoli per le famiglie; le banche possono non registrare tutte le perdite. Il combinato consente di migliorare i bilanci. Questo è il caso di Wells Fargo, Jp Morgan, Citi, Bank of America. Alla fine si sono avuti risultati prevedibili, che però sono stati molto pubblicizzati, quasi fossero il segno della fine della crisi delle banche. Il sospetto è che sia data tanta enfasi ai risultati per comunicare al pubblico che le banche possono farcela senza lo stato. L'esito non è stato all’altezza dell’ambizione. I prezzi delle azioni, dopo gli annunci della cornucopia, sono flessi. Diverso è il caso di Goldman Sachs, che non è una banca tradizionale, bensì d’investimento: ha guadagnato sui propri investimenti, ha naturalmente reso il bilancio meno truce e ha detto che vuole aumentare il capitale.
Decapitiamo gli istituti «omnibus»
Siamo al quarto atto. Ecco il bivio: i bilanci delle banche supereranno o meno il test di sopravvivenza? Se sì, tutti resteranno basiti, attoniti. La crisi delle banche è arrivata e scomparsa, come se nulla fosse. Se no, le cose saranno ben complicate.
Quanto denaro pubblico mettere nelle banche, e come riuscire a controllare i loro risultati? Guardando oltre, c’è chi dice che le banche d’oggi dovrebbero dividersi in due. Da una parte, diventare entità simili a un’impresa di pubblica utilità, con pochi rischi e bassi redditi. Dall’altra, diventare banche d’affari, che prendono i rischi e hanno redditi alti. Naturalmente, se i rischi portano al fallimento, niente denaro pubblico. A ben guardare, è la soluzione adottata proprio dopo la crisi degli anni Trenta e che era durata una cinquantina d’anni – le banche di credito ordinario separate dalle banche d’affari, invece delle banche «omnibus».
La versione gauche, quella del papa dei «liberals», nonché premio Nobel, Paul Krugman, della proposta di divisione fa notare come i periodi di crescita economica maggiore, combinati con la minor disuguaglianza dei redditi, li si sia avuti proprio con le banche noiose (sono chiamate proprio così: boring). Insomma, lo sviluppo e l’eguaglianza richiedono la decapitazione delle banche «omnibus». Anche l’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Simon Johnson, sostiene che negli Stati Uniti vada ridimensionata l’oligarchia finanziaria. Insomma, da Pedro, che accendeva, incredulo, il suo mutuo subprime nell’assolata periferia californiana, siamo arrivati, dopo soli due anni, alla lotta politica aperta.
Pubblicato su «Il Foglio» del 22 aprile 2009
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