La crisi e le analisi sulle cause della recessione in corso hanno generato una serie di miti sulla corporate governance; è bene soffermarci un attimo ad analizzarli per capire quanto di vero contengano e quando, invece, possano essere fuorvianti. Ne elencheremo alcuni e proporremo, per ciascuno, alcuni spunti di riflessione.


Il primo leitmotiv di questi mesi ha riguardato l’incapacità del mercato di prevenire le crisi, il che da un punto di vista di corporate governance si traduce nella supposta incapacità delle imprese di conseguire uno sviluppo sostenibile, orientato al medio-lungo periodo. È vero: il mercato è il luogo dove gli attori interagiscono liberamente secondo i propri incentivi sottostando a un insieme di regole, più o meno stringenti a seconda del paese e dell’epoca. Regolamentare il mercato non è facile, ma a volte è necessario e comunque se ne sta discutendo ampiamente in questo periodo (1). Mettere mano ai sistemi di corporate governance delle imprese cercando di regolarli dall’esterno è, però,  molto difficile e, soprattutto, molto rischioso per la competitività di un sistema economico.


Mito n. 1 • Il sistema di incentivi a cui rispondono le imprese
è orientato al breve periodo e genera un eccesso di rischio che deve essere limitato

Questa affermazione è solo parzialmente veritiera, ed è emersa in considerazione del fatto che le società finanziarie si sono dotate di incentivi orientati a premiare i profitti di breve periodo. Nelle società di capitali appartenenti a quella che viene ormai comunemente definita «economia reale», gli incentivi sono altri, e dobbiamo distinguere almeno due casi. Nel caso di imprese ad azionariato diffuso il valore di un’impresa è dato, in ultima analisi, dal valore di mercato delle azioni. Secondo le moderne teorie sulla corporate finance, il valore di mercato delle azioni incorpora tutte le informazioni relative ai flussi di cassa, scontati, che si ritiene l’impresa possa realizzare. Se il valore di mercato delle imprese diminuisce a causa delle basse performance, il prezzo delle azioni decresce. Se il prezzo delle azioni decresce l’azienda diventa contendibile, e se l’azienda viene acquisita il management rischia di venire estromesso. Gli incentivi del top management sono, quindi, implicitamente orientati alla massimizzazione del valore delle azioni, che incorpora valutazioni sui potenziali flussi di cassa di lungo periodo, ovviamente ponderati per i fattori di rischio generati dalle strategie aziendali. Per migliorare il sistema di corporate governance dall’esterno la soluzione migliore consisterebbe nel rendere il mercato per il controllo delle imprese più aperto, alleggerendo, e non, come accaduto nell’ultimo periodo, appesantendo, i requisiti in capo a chi lancia OPA (o azioni simili), in modo da rendere la minaccia di acquisizione esterna concreta e forzare il management a massimizzare le performance aziendali. Nel caso di aziende la cui quota di controllo è in mano a un gruppo ristretto di azionisti (come tipicamente accade sul mercato europeo), il sistema d’incentivi varia. Certo, il valore delle azioni mantiene una notevole importanza (alla fine della giornata sono i flussi di cassa generati dall’azienda a determinare la rendita dell’azionista), ma subentrano altri fattori quali la propensione al rischio dell’azionista di controllo, la sua esigenza di diversificazione delle strategie e, non ultimo, le sue ambizioni personali. Pare però improbabile che un azionista di controllo sia mediamente orientato a considerare prioritario il breve periodo: più facile che strutturi la sua azienda secondo un sistema di incentivi che ne garantiscano la sopravvivenza nel medio-lungo periodo. Per migliorare con un sistema di regole coerenti la corporate governance di queste società occorre evitare promesse di «salvataggio» esterne e sussidi, al fine di non aumentare la propensione al rischio del management e degli azionisti di controllo. Occorre poi tutelare gli interessi dei piccoli azionisti, soprattutto da un punto di vista informativo, per permettere loro di «votare con i piedi» vendendo quote di azioni nell’azienda in caso di malagestione.


Mito n. 2 • Bonus e piani di incentivi ai manager aumentano il profilo di rischio
delle imprese e andrebbero riformati

Si tratta di un’affermazione vera per metà. È vero che piani di incentivi sbagliati, in ambito finanziario, hanno dato origine a una bolla che ha portato a gonfiare i profitti nel breve (talvolta brevissimo) periodo ponendo a rischio la sopravvivenza delle imprese. Ma nel settore industriale, come abbiamo visto al punto precedente, questo non è del tutto vero. Forse, se i top manager delle grandi industrie automobilistiche americane ora in difficoltà fossero stati incentivati a rischiare un po’ di più per creare valore per gli azionisti avrebbero potuto, pur nell’incertezza di un mercato in declino, tirare fuori qualche «coniglio dal cilindro» al fine di sopravvivere. Non sempre e non in tutti i settori gli incentivi hanno, quindi, favorito il rischio. Quanto alla seconda metà dell’assunto – gli incentivi andrebbero riformati – non è né vero né falso. È forse tautologico, perché tutte le cose sono passibili di essere migliorate e sicuramente i difetti evidenziati negli ultimi mesi andrebbero corretti. Tuttavia non è facile. Di nuovo, si impone una distinzione. Per quanto riguarda le aziende ad azionariato diffuso di stampo anglosassone, il problema, come evidenziato anche dal giurista J. Macey (2), è l’eccessiva subordinazione dei board of directors delle public company al CEO. Questo crea due problemi: da un lato schemi salariali eccessivamente generosi per i CEO e il top management, dall’altro la mancanza di credibilità di una sanzione (la perdita del posto) in caso di scarsa performance dell’azienda. Fissare delle regole dall’esterno, però, è difficile e si rischia di interferire con gli obiettivi degli azionisti. Ovviamente, si potrebbe limitare il profilo di rischio e quindi la probabilità di fallimento dell’impresa (ad esempio obbligando a correlare gli incentivi a obiettivi di medio-lungo periodo, oppure permettendo di usufruire di stock options solo a patto di rimanere in azienda per un certo numero di anni). Ma abbassando il profilo di rischio si abbassa, con tutta probabilità, la redditività dell’azienda. Gli azionisti vogliono aziende più solide ma meno dinamiche, meno innovative e, in ultima istanza, meno redditizie? È questo l’ottimo sociale per un’economia nel suo complesso? Per quanto riguarda le aziende con un azionista di riferimento, il problema, di nuovo, non dovrebbe porsi. L’azionista di controllo potrebbe fissare dei criteri per incentivare il proprio management al raggiungimento degli obiettivi prefissati, mentre i piccoli azionisti potrebbero valutare i risultati e decidere di vendere le proprie partecipazioni in caso di insoddisfazione. A meno che non subentrino fenomeni di moral hazard (ad esempio, l’azienda ha molti occupati e non verrà mai lasciata fallire), nel qual caso è interesse del legislatore indirizzare le strategie aziendali verso profili di rischio minori, per minimizzare le probabilità di default. Qui però non stiamo più parlando di corporate governance pura, bensì di complessi sistemi di gestione del tessuto economico territoriale che non possono essere analizzati in un breve articolo.


Mito n. 3 • Il controllo cogestito dell’impresa da parte di una molteplicità
di stakeholder riduce il profilo di rischio della stessa e andrebbe favorito

Vero, e dipende. È vero che una gestione condivisa tra i diversi stakeholder dell’impresa (azionisti, banche creditrici e lavoratori in primis) riduce il profilo di rischio di un’impresa. Creditori e lavoratori sono titolari di diritti fissi nei confronti dell’impresa, mentre gli azionisti sono titolari di diritti residuali. L’azienda prima paga dipendenti, fornitori e banche, e successivamente remunera gli azionisti con la distribuzione di dividendi (o, indirettamente, attraverso l’apprezzamento del valore delle azioni). Pertanto i primi saranno interessati a fare in modo che l’impresa sia in grado di ripagare i loro diritti con il più basso livello di rischio possibile. Gli azionisti, viceversa, sono più predisposti ad assumersi maggiori rischi se a questi possono corrispondere maggiori opportunità di crescita. Non è chiaro quale dei due sistemi possa risultare migliore in assoluto. Una gestione condivisa tra tutti gli stakeholder è più caratteristica del mercato europeo, ed è tipica delle imprese tedesche, dove sindacati e banche siedono regolarmente nei consigli di amministrazione, mentre la gestione affidata al management e rispondente prevalentemente agli interessi degli azionisti è tipica del mercato anglosassone. La prima è caratterizzata da minori rischi, mentre la seconda permette uno sviluppo più dinamico e tassi maggiori di crescita dell’economia. Ancora una volta, la scelta a livello collettivo può essere fatta (anche se in Germania il modello consociativo è imposto per legge) valutando i diversi trade-off.


Mito n. 4 • La partecipazione di investitori istituzionali,
fondi di investimento e banche al sistema di governance delle imprese
assicura stabilità e andrebbe favorito

È vero per quel che riguarda le banche ed è grosso modo vero per quanto riguarda i fondi comuni di investimento. Le banche che detengono partecipazioni nelle imprese sono, spesso, anche creditrici delle imprese stesse. Per i motivi di cui sopra hanno pertanto una propensione al rischio minore rispetto ad altri azionisti. I fondi comuni di investimento solitamente non favoriscono imprese con un elevato grado di rischio, ma questa preferenza per la riduzione del rischio è parzialmente bilanciata dalla possibilità di detenere azioni su un portafoglio particolarmente ampio di imprese. Hedge fund e fondi di private equity, invece, esercitano una spinta spesso destabilizzante per quanto riguarda la governance dell’impresa. Queste tipologie di investitori hanno interesse a ottenere alti rendimenti e, pertanto, spingono il top management ad adottare profili di rischio maggiore. La crisi ancora non è passata e già si parla della necessità di nuove regole pure per questi soggetti, anche per scongiurare rischi sistemici. La tesi è molto debole: gli hedge fund non sono stati alla base della crisi in corso e i rendimenti di breve periodo sono ottenuti grazie all’incremento di valore delle azioni o degli asset (materiali o no) delle imprese in cui hanno investito. L’incremento di valore, tuttavia, seppur misurato nel breve periodo, incorpora già tutte le informazioni sulla redditività futura dell’impresa. Difficile che un hedge fund riesca a rivendere a peso d’oro azioni di un’impresa prossima al dissesto finanziario. Come fa notare sempre Macey, la partecipazione sul mercato di hedge fund e fondi di private equity andrebbe, invece, favorita. Solo un gruppo manageriale mediocre ha da perdere nell’avere dei «guardiani» severi, pronti a intervenire nel caso di scarse performance aziendali.


Mito n. 5 • Servono più regole per assicurare che il sistema di corporate governance
sia orientato alla massimizzazione del valore per gli azionisti
 
È fondamentale che il sistema di governance miri a perseguire il volere degli azionisti (massimizzazione dei profitti, del valore delle azioni, ma anche compimento di una mission). Per fare ciò occorre che le regole puntino a limitare il rischio di deviazioni volontarie da parte del management (frodi, manipolazione dei risultati di bilancio…) o di malagestione. Per rispondere al primo obiettivo, sono stati imposti sistemi di controllo interni sempre più sofisticati. È dubbio che tali sistemi di controllo siano efficaci nell’intercettare frodi di una certa consistenza e scongiurare il rischio di nuovi casi Enron. Tali sistemi, inoltre, costano molto e interferiscono inevitabilmente con l’attività aziendale limitandone le performance. I casi di malagestione non possono essere eliminati a priori. Le regole dovrebbero garantire soluzioni rapide nel caso in cui un gruppo dirigente non si dimostri in grado di gestire l’azienda in modo efficace. Dare più potere e voce agli azionisti in sede di assemblea può essere una soluzione valida in principio ma scarsamente efficace. I costi informativi e di intervento sarebbero troppo elevati rispetto al beneficio, e il piccolo azionista scontento delle performance aziendali potrebbe più efficacemente migliorare la redditività del proprio portafoglio vendendo la quota posseduta nella società. Più efficaci appaiono le misure che favoriscono il mercato per il controllo aumentando la contendibilità dell’impresa. Approfittando anche della crisi in corso, le regole sono state invece modificate in maniera più restrittiva sfavorendo la contendibilità del controllo (attraverso l’aumento degli obblighi in capo a chi lancia un’OPA e l’aumento delle possibilità difensive in capo al controllante). Il problema è che le regole imposte esogenamente sono il frutto di un compromesso tra attori con sistemi di incentivi propri, che non sempre coincidono con quelli degli azionisti. È difficile che piccoli azionisti con interessi frammentati possano esercitare una pressione tale da favorire davvero l’adozione di norme che tutelino il loro interesse in contrasto con gli interessi di gruppi più organizzati e concentrati. Occorre pertanto prestare la massima attenzione affinché le norme vadano nella direzione di migliorare, e non di rendere meno efficaci, i meccanismi di controllo delle aziende.


(1) http://www.centroeinaudi.it/ricerche/il-semestre-della-crisi-e-delle-regole.html

(2) J.R. Macey, Corporate Governance, Promises Kept, Promises Broken, Princeton, Princeton University Press, 2008