La crisi della Grecia porta alcuni a pensare che, appena questa si sia allargata all’Italia, saranno dolori. Ossia, appena saranno richiesti anche all’Italia dei rendimenti per sottoscrivere il debito pubblico di molto maggiori a quelli correnti. L’Italia ha, infatti, un grande debito pubblico e una crescita molto modesta, e dunque è vulnerabile alle richieste esose dei mercati finanziari. La conclusione sembra logica, ma a un’analisi più approfondita non regge.
La soglia critica dei rendimenti richiesti sul debito pubblico, tale da «mettere in ginocchio» un paese, va calcolata tenendo conto della combinazione di cinque variabili: 1) l’ammontare del debito pubblico; 2) le scadenze dello stesso; 3) il costo del debito; 4) il saldo del bilancio pubblico prima del pagamento degli interessi (il saldo primario); 5) il tasso di crescita dell’economia. Insomma, non va calcolata con due variabili, ossia tenendo conto solo del debito (che è cospicuo nel caso dell’Italia) e della crescita (che è scarsa, sempre nel caso dell’Italia).
Nel caso italiano: 1) il debito pubblico è certamente voluminoso, perché è superiore al Pil; 2) è lungo, ossia non scade subito, in media scade in circa sette anni; 3) è costoso, ma, a differenza del passato, non è più costosissimo – prima dell’ingresso nell’euro gli interessi sul debito erano, infatti, pari al 10% del Pil, mentre oggi siamo al 5%; 4) il saldo primario è leggermente positivo se si espungono gli effetti della crisi, ed è leggermente negativo se li si include; infine, 5) il tasso di crescita dell’economia è piuttosto modesto.
Due conti. Con un debito (lordo – quello netto, che tiene conto anche delle attività di proprietà pubblica, è intorno al 90% del Pil) pari al 120% del Pil, e supponendo che il costo del debito cresca del 50%, passando istantaneamente dal 4 al 6%, come se le scadenze del debito venuto a maturazione fossero di pochi mesi, e con un tasso di crescita pari al 3% (1% reale e 2% d’inflazione), la manovra richiesta (il saldo primario) per non far crescere il debito pubblico – ossia per tenerlo dov’è, al 120% – è pari a circa il 3,5% del Pil (1). Il saldo primario italiano oggi si aggira intorno allo 0%, e dunque non è così difficile portare sotto controllo il debito.
La manovra richiesta in caso di crisi grave è, esagerando – scriviamo «esagerando» perché supponiamo che il costo del debito cresca all’istante del 50% quando va in scadenza (in media in sette anni) e pesi sul debito lordo e non su quello netto –, intorno ai 50 miliardi di euro, pari all’incirca al 3,5% del Pil. Non è poco, ma non abbiamo nemmeno lontanamente a che fare con manovre di tipo greco, che, per la stabilizzazione del debito, richiedono variazioni nell’ordine del 10% del Pil. La conclusione è che la soglia critica del debito pubblico italiano è molto alta.
(1) L’equazione che mostra le condizioni per avere un debito pubblico che non cresce in rapporto al Pil è: s = ((r–g)/(1+g))*d. Se il costo nominale del debito è pari al 6% (espresso con r) e la crescita nominale del Pil è pari al 3% (espressa con g) e il debito pubblico è pari al 120% del Pil (espressa con d), il saldo primario (espresso con s) deve essere positivo, ossia le spese sono inferiori alle entrate, e pari al 3,5% del Pil.
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