Come si confrontano le democrazie moderne - le società aperte e le economie di mercato di oggi - con il modello del Socialismo del Secolo XXI introdotto da Hugo Chávez in Venezuela? Il voto non basta, perché un sistema possa considerarsi democratico. A Cuba - un esempio calzante se si analizza il contesto e le prospettive dell’economia venezuelana - si vota ogni due anni e sei mesi per le comunali e ogni cinque per eleggere i rappresentanti di parlamento e provincie. Persino in Corea del Nord si vota spesso, l’ultima volta il 9 marzo di quest’anno.
Certo, a Cuba c’è un partito unico mentre nel paese asiatico Kim Jong-un è stato riconfermato presidente con il 100% dei voti (tutti hanno votato per lui non solo perché era il solo candidato in lizza, ma per evitare di essere arrestati o, peggio, condannati a morte). A suo tempo Hitler fu votato come Mussolini, ed entrambi arrivarono al potere con elezioni democratiche.
No, è ovvio che il voto è condizione necessaria ma non sufficiente perché si possa definire democratico un paese. Indispensabili sono anche la separazione dei poteri - ovvero che il giudice non faccia ciò che gli ordina il leader di turno e che il legislativo non sia subordinato all’esecutivo - l’esistenza di contrappesi tra i poteri dello Stato, la piena libertà di stampa, il diritto universale al giusto processo. È necessario altresì che le sentenze dei tribunali non siano manipolate, che le informazioni ed i media che le veicolano non siano “chiusi” a chi esprime idee non allineate al potere dominante e che, naturalmente, non vengano arrestati gli oppositori.
In una democrazia, infine, chi governa è responsabile per ciò che fa e ne risponde alla società nel suo complesso, minoranze comprese, perché il presidente non può fare ciò che gli pare ma deve rendere contro delle sue azioni essendoci organismi indipendenti di controllo.
IL VENEZUELA E’ UNA DEMOCRAZIA O UN REGIME?
La separazione dei poteri
Sussistono questi presupposti per potere definire democratica la repubblica bolivariana del Venezuela? Cominciamo dalla separazione dei poteri. L’ultimo giudice che il 10 dicembre 2009 emise una sentenza sgradita al presidente democraticamente eletto – all’epoca era Hugo Chávez – fu María Lourdes Afiuni. L’inventore del Socialismo del Secolo XXI ne chiese subito l’arresto in diretta TV e meno di una settimana dopo la giudice finiva dietro le sbarre. Oggi continua a vivere ai domiciliari senza che sia stato neanche iniziato il processo contro di lei mentre il suo avvocato – già condannato nel frattempo per 'ostruzione ‘alla Giustizia’' - potrebbe vedersi ritirare nei prossimi giorni la licenza per esercitare la professione. Naturalmente dopo la Afiuni mai nessuna toga ha più osato contraddire i desiderata di un presidente in quel di Caracas.
La persecuzione politica dell’opposizione
Da quando sono iniziate le manifestazioni studentesche, il 4 febbraio scorso, la situazione - se possibile - è peggiorata, con tribunali e giudici usati dal presidente succeduto a Chávez, Nicolás Maduro, per colpire direttamente gli avversari politici. L’arresto, avvenuto il 18 febbraio scorso, del leader d’opposizione Leopoldo López, massimo dirigente di Voluntad Popular, partito socialdemocratico iscritto all’Internazionale Socialista, ha dato inizio a questo “nuovo corso” in cui il giudiziario viene oramai usato dall’esecutivo come una vera e propria “arma”.
Anche per López il presidente Maduro aveva chiesto l’arresto in TV non una ma ben 17 volte nei due mesi precedenti il 18 febbraio per “fascismo”, “golpismo” e membro della “Triade del male”, assieme ad altri due leader dell’opposizione, María Corina Machado ed Henrique Capriles. Alla fine, la prima e ridicola accusa di “terrorismo” è stata ritirata mentre quella formale contro l’esponente politico - “istigazione pubblica, mandante di danni alla proprietà ed incendio ed associazione per delinquere” - è stata formulata dal procuratore generale della Repubblica bolivariana del Venezuela Luisa Ortega Díaz solo lo scorso 4 aprile mentre non è stata fissata la data per iniziare il processo, il che può significare per López anche molti anni di carcere prima di potersi difendere in aula.
Carlos Vecchio, il portavoce di Voluntad Popular, ha invece scelto la clandestinità dopo un mandato di cattura contro di lui simile a quello di López. Inoltre, la giustizia venezuelana solo nell’ultimo mese ha fatto arrestare due sindaci, una decina di consiglieri comunali e altri politici tutti appartenenti all’opposizione i cui esponenti, nel 30% dei casi sono stati raggiunti da misure cautelari o rinvii a giudizio. A fine marzo, infine, è stata decretata dal Supremo Tribunale di Giustizia la decadenza dal Parlamento della deputata più votata del paese, Maria Corina Machado, dopo López l’oppositrice più battagliera di Maduro e del suo governo. La condanna contro di lei per “tradimento alla patria” era però stata anticipata pochi giorni prima dal presidente del Parlamento Diosdato Cabello, anche qui in diretta TV.
Senza una giustizia indipendente e con carcerazioni politiche sempre più frequenti – sinora immune da qualsiasi accusa è stato Henrique Capriles, l’unico leader dell’opposizione tollerato da Maduro e, dunque, ignorato dai tribunali venezuelani – parlare di democrazia oggi a Caracas è impossibile, a meno di non essere ingenui, in malafede o parti in causa con interessi economici in ballo.
Gli attacchi alla stampa indipendente
Sulla libertà di stampa basti dire che ai giornali che esprimono idee non in linea con il governo è impedita la fornitura di carta (chi non ha ancora chiuso è stato costretto a ridurre la foliazione da 48 ad 8 pagine) mentre tutte le TV nazionali private sono costrette all’autocensura per non vedersi ritirate le frequenze e le internazionali. La colombiana NTN24, l’unica che stava coprendo la manifestazione studentesca del 12 febbraio scorso, è stata immediatamente tolta dal bouquet dei canali via cavo ed oscurata dal CONATEL, l’ente statale delle TLC. Inoltre da quando sono iniziate le proteste due mesi fa si sono già registrati oltre un centinaio di attacchi a giornalisti, quasi tutti di media stranieri o indipendenti
LA CRISI ECONOMICA VENEZUELANA
Come può il paese che ha le maggiori riserve al mondo di petrolio avere il salario minimo più basso di tutta l’America latina se si esclude Cuba, introdurre una tessera per razionare gli acquisti di beni alimentari nei supermercati a causa della scarsità dei prodotti ed avere l’inflazione più alta al mondo? Il paese in questione è il Venezuela o, meglio, la República bolivariana de Venezuela, perché, tra le tante cose cambiate in questi ultimi 15 anni in cui al governo c’è stato il chavismo - prima con il suo fondatore Hugo Chávez che vinse le elezioni del 1998 poi, dallo scorso anno, con il suo successore designato Nicolás Maduro - c’è stato anche il nome, in omaggio al padre della “Patria Grande” sudamericana, Simón Bolívar.
Il petrolio
Le proteste di strada che sinora hanno causato 39 morti, oltre cento casi di tortura denunciati e più di due mila arresti da parte delle autorità venezuelane, oltre che per la violenza sono in gran parte dovute alla crisi economica che una mega svalutazione della moneta locale, il bolivar (Bs), fatta lo scorso 24 marzo, non ha fatto che accelerare.
Il paese ha le riserve di petrolio più grandi al mondo con quasi 300 miliardi di barili (annunciate nel 2011 dal ministro Rafael Ramírez e certificate nel 2012 da British Petroleum). Tanto per capirci più dell’Arabia Saudita. Con una popolazione pari a 30 milioni di abitanti e un prezzo al barile medio di 100 dollari – il greggio dell’Orinoco essendo più bituminoso vale sempre qualche dollaro in meno della quotazione OPEC – significa che ogni venezuelano possiede una “ricchezza alla nascita” pari a 10mila barili di petrolio che, tradotto in dollari, fa un milione di dollari.
Come riuscire ad essere poveri con queste premesse che non includono il gas naturale - di cui il paese possiede riserve certificate che superano i 5,5 bilioni di metri cubi - rappresenta un vero e proprio “case study” perché, in realtà, tutti i venezuelani dovrebbero essere milionari per il semplice fatto di … essere venezuelani.
Certo, le riserve non possono essere estratte tutte contemporaneamente - soprattutto per motivi tecnici ma anche perché se per assurdo fosse possibile farlo il prezzo del barile crollerebbe, non a caso l’OPEC fissa quote di produzione per proteggere entro certi limiti i guadagni dei paesi membri - e quel milione di dollari non può essere investito né essere messo in banca subito.
Il reddito pro capite da petrolio
Comunque la capacità estrattiva del paese sudamericano, non a caso battezzato negli anni Settanta la “Venezuela saudita”, è pari a poco più di 3 milioni di barili al giorno, secondo quanto dichiarato dal governo. Questa cifra ufficiale moltiplicata per i 365 giorni dell’anno garantirebbe 3.650 dollari a tutti gli abitanti del Venezuela al prezzo attuale del barile. Ovvero 304 dollari al mese che fanno oltre 20.500 bolivares (Bs) al mese, se li cambiate in strada o in molti hotel “in nero” mentre al tasso ufficiale – il nuovo cambio controllato introdotto lo scorso 24 marzo - sono comunque 16mila Bs per tutti, ovvero cinque volte il salario di un venezuelano al primo impiego, oggi pari a 3.270 bolivares.
Il costo della vita a Caracas
Il problema a questo punto è cercare di capire il costo reale di vita a Caracas. Se per farlo The Economist usa il Big Mac Index che lo calcola in base al prezzo dell’hamburger più venduto dalla multinazionale del fast food presente quasi ovunque al mondo, Lettera Economica, essendo italiana, preferisce basarsi sul costo dell’espresso al bar. Oggi a Caracas un caffè costa 67 bolivares, il che significa che con il suo stipendio un operaio di primo livello guadagna 48 caffè al mese, ossia una tazzina e mezza al giorno, una la mattina e mezza la sera.
Certo ci vuole molto talento ad essere ricchi “per nascita” come lo sono i venezuelani e a vivere da indigenti, ma in 15 anni di governo il chavismo ha mostrato senza ombra di dubbio di possedere un talento unico nella materia economica.
Il modello economico chavista versus l'economia di mercato
L’economia di mercato è per definizione quella in cui si possono esercitare attività commerciali e industriali private senza dovere dipendere esclusivamente dal potere del governo-stato e dove, soprattutto, il diritto di proprietà è tutelato. In Venezuela, invece, oggi l’unico in grado di esercitare il diritto di proprietà sembra essere il governo che a poco a poco si è impossessato di ogni aspetto della vita economica diventando proprietario di tutto.
Dagli espropri indiscriminati – il contadino Franklin Brito morì dopo 4 mesi di sciopero della fame nel 2010 per la terra che nel 2005 gli era stata espropriata dallo stato – agli arresti dei commercianti colpevoli di non vendere ai “prezzi giusti” fissati dal governo (dal 2008 in poi), l’ultima notizia che lede il diritto di proprietà è la legge pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 28 marzo 2014 con cui si obbligano tutti i cittadini che affittano immobili dal 28 marzo 1994 a venderli agli inquilini entro il 28 maggio di quest’anno.
Il paradosso è che se anche chi vive in affitto non è disposto a comprare, il “proprietario” è costretto comunque a vendere al prezzo fissato da un ente statale. In caso contrario la multa è di 40mila dollari da pagarsi entro 5 giorni in contanti. Se ancora non lo si vende multa raddoppiata e, a seguire, esproprio dell’immobile da parte del governo-stato. Insomma, oggi in Venezuela la proprietà privata non è tutelata e una produzione autonoma dallo stato è praticamente impossibile. Il diritto di proprietà, inoltre, non solo genera ricchezza – per rendersene conto basta confrontare la depressione del mercato immobiliare oggi a Caracas con il boom brasiliano del mattone – ma assicura l’autonomia delle persone. Oggi, la “guerra economica” dichiarata da Maduro contro “speculatori” e “golpisti” ha de facto fatto perdere quest’autonomia a chi opera nel settore privato perché tutto, oramai, è controllato dallo stato.
Come si è arrivati fin qui?
Cominciamo col dire che, da quando inizia a governare il Venezuela, Chávez ha approfittato della favorevole condizione economica internazionale – bassi tassi d’interesse, prezzo del petrolio alle stelle, grande richiesta di materie prime a cominciare dalla Cina – per inanellare una serie di eccessi fiscali e monetari che sono possibili solo quando in uno stato non esiste la trasparenza, che è “figlia” della divisione dei poteri, ciò che è avvenuto moltiplicando senza limiti la spesa pubblica improduttiva e distribuendo a pioggia sussidi con l’esclusivo fine di accrescere il consenso elettorale.
Figlie di queste politiche insostenibili nel lungo termine sono le “Missiones”, ovvero le opere sociali del chavismo, che, se da un lato servono ad includere ed a migliorare momentaneamente il tenore di vita di almeno il 50% della popolazione, dall’altro distruggono quel poco che c’era di industria produttiva attraverso espropri senza senso.
Altra causa dell’attuale crisi, le riserve petrolifere che da sole abbiamo visto fanno dei venezuelani, di tutti i venezuelani, dei milionari alla nascita, sono state distribuite a pioggia a molti paesi del continente o in “scambio merci” – questo ad esempio il caso di Cuba che in cambio ha offerto medici ed intelligence - o per crearsi una base di appoggio politico continentale, dando vita a fondi neri messi a disposizione di molti partiti per vincere le elezioni presidenziali.
Il risultato, ovvio, di questi “regali” di petro-dollari a pioggia ai vicini e di politiche insostenibili sul fronte interno è stato duplice. Da un lato l’appoggio incondizionato al regime dell’UNASUR, l’associazione sudamericana dove sono riuniti i principali beneficiari delle regalie chaviste, che si è dimostrata cieca e sorda di fronte alle violazioni dei diritti umani che persino un’ONG né “fascista” né golpista” come Amnesty International ha denunciato a fine marzo. Dall’altro il crollo del modello dal punto di vista economico, con Caracas che oggi ha l’inflazione più alta del mondo mentre le riserve della Banca Centrale, nonostante le incredibili risorse petrolifere si sono evaporate.
Invece di affrontare le conseguenze di una politica economica non sostenibile, il chavismo con Chávez ancora in vita ha scelto di occultare entrambi questi problemi economici. Per combattere l’inflazione è infatti intervenuto con un rigido di controllo sui prezzi che, invece di sconfiggere gli aumenti, ha causato - al pari di tutti gli altri esempi nella storia dell’economia a cominciare dall’ex Urss - una scarsità mai vista prima di quasi tutti i prodotti ed enormi file nei negozi. L’emorragia di valuta straniera invece è stata bloccata con una serie di misure molto dure, la prima delle quali è stata l’imposizione di un cambio fisso, a partire dal lontano 2003.
Peccato che in questi casi non ci siano controlli che tengano, anche se, per decreto, Chávez dispose a suo tempo la galera per i giornalisti che parlassero in TV o scrivessero sui giornali delle quotazioni del cambio nero, quest’ultimo è arrivato addirittura a più che decuplicare su cambio ufficiale. Se, infatti, per il governo il cambio con il dollaro era di 1 a 6,4, a fine febbraio la cosiddetta “lechuga verde” – ovvero “lattuga verde”, così in gergo i venezuelani chiamano il dollaro su Internet – era quotata a 80 Bs. La situazione è ulteriormente peggiorata, questa volta anche per le multinazionali, lo scorso 24 marzo quando Maduro ha deciso di introdurre un nuovo sistema per vendere dollari alle imprese, operando de facto una mega svalutazione ufficiale del bolivar che da 6,4 per dollaro è passato a 51,86 in un solo giorno
Prospettive
Il malcontento della popolazione è destinato a crescere per una condizione economica sempre più fallimentare. Dopo la mega svalutazione del bolivar di due settimane fa, i prezzi dei beni primari sono aumentati fino al 200% anche nei Mercal e nei Pdval, i supermercati del popolo. Un litro di latte è passato da 30 ad 80 Bs, l’olio di semi da 10 a 30 Bs, la farina di mais da 8 a 22 Bs, lo zucchero da 7 a 18 Bs, il riso da 8 a 23 Bs. Come se non bastasse, il controllo dei prezzi statale sinora non ha fatto che aumentare la penuria di beni primari come latte, farina e carne di pollo mentre una tessera 2.0 di razionamento alimentare – sarà biometrica - è alle porte.
Forse proprio per questa situazione Henrique Capriles – il leader dell'opposizione - ha scelto di distanziarsi dalle manifestazioni di strada e dalle barricate dell’opposizione più radicale: lui e la sua équipe economica ritengono infatti che entro luglio anche una parte importante del popolo chavista comincerà a voltare le spalle alla revolución. Difficile scommettere sulla sua previsione – Cuba, che tra l’altro non detiene le maggiori riserve di petrolio al mondo come il Venezuela continua a resistere benissimo – mentre una cosa è molto probabile: il 2014 economico per il Venezuela sarà l’anno più duro da quando il chavismo è arrivato al potere nel 1999.
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