La diseguaglianza è il male che l’Amministrazione Obama s’è messa in testa di estirpare. La proposta di budget per il 2015 (anno fiscale) presentata dal presidente americano – ha chiesto 3,9 trilioni di dollari – ha questo obiettivo, anche se è stato interpretato soprattutto come una mossa politica, “una piattaforma per i democratici” in vista delle elezioni di mid-term a novembre, come scrive il New York Times (1), che non porterà grandi consensi con i repubblicani, cosa che potrebbe guastare molte delle aspettative obamiane.
La proposta, definita dai commentatori molto liberal e a tratti populista, contiene sgravi fiscali più ampi per i livelli di reddito più bassi con un contestuale aumento delle tasse per i ricchi, che è in termini economici e numerici la sintesi della battaglia per combattere la diseguaglianza.
Molti si sono interrogati, ancor prima che un budget così cristallino sulla questione fosse presentato, se la lotta alla diseguaglianza abbia impatti negativi sulla crescita. Un report del Fondo monetario internazionale (2) mostra che una crescita sostenuta è determinata in parte da una migliore redistribuzione dei redditi, quindi a una diminuzione della diseguaglianza. Naturalmente lo studio è molto cauto e molto approfondito, come ha spiegato John Cassidy sul New Yorker (3) mettendo a confronto i dati, le statistiche passate e le conseguenze di diverse politiche in diverse fasi economiche e in diverse nazioni. Ma quel che interessa soprattutto ai democratici dimostrare è contenuta nelle conclusioni del documento: “Non dobbiamo assumere che ci sia un grande trade-off tra la redistribuzione e la crescita: i dati macroeconomici migliori a nostra dimostrazione non confermano questo trade-off”.
Naturalmente si tratta di studi statistici e gli economisti sono sempre molto cauti nel definire un rapporto causa-effetto così netto. Soprattutto il problema che deve affrontare l’Amministrazione Obama è molto complesso e affonda le sue radici nel modello identitario dell’America che ha a che fare con il sogno americano: la diseguaglianza e la possibilità che questa diseguaglianza non possa essere colmata mette a dura prova il senso stesso del sogno americano.
Sempre sul New Yorker, l’autore della column economica settimanale, James Surowiecki, ha affrontato di petto la questione della mobilità sociale, riprendendo testi storici al riguardo e analisi più recenti. Nel XX secolo, anche se la “working class” non si è mai di fatto mossa in una classe di reddito differente – spiega Surowiecki – ha comunque visto crescere i propri standard di vita, cioè è stata meglio: “Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, il reddito medio americano è duplicato”, precisa l’autore.
E’ questo che è cambiato negli ultimi quarant’anni. La crescita è in media più bassa e la classe media (e quella povera pure) non si è arricchita ai tassi della fase economica precedente: per questo a Washington si parla di mobilità ma non di benessere di base, dice Surowiecki. “Alzare gli standard di vita per i lavoratori è difficile: bisogna far aumentare i salari e anche parlare di temi che spaventano a morte i politici, come tasse e redistribuzione”. Ma questo è il punto: un’economia non è di successo se pochi riescono ad avanzare come classe sociale e altri non riescono a restare nella propria.
(1) http://www.nytimes.com/2014/03/05/us/politics/obama-submits-budget-to-congress.html?hpw&rref=us&_r=0
(2) http://www.imf.org/external/pubs/ft/sdn/2014/sdn1402.pdf
(4) http://www.newyorker.com/talk/financial/2014/03/03/140303ta_talk_surowiecki
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