Il percorso di riduzione degli attivi bancari in Europa non è ancora concluso. Una stima indica in 900 miliardi di euro l’ammontare di attivi ceduti in un anno e mezzo (tra il terzo trimestre 2011 e il primo semestre 2012) mentre ne restano quasi 2.300 miliardi (cifra superiore al debito pubblico italiano). Di questi, circa 1.000 miliardi sono stati congelati dentro ai bilanci pubblici, sotto forma di nazionalizzazioni, salvataggi o bad banks, principalmente (oltre l’80%) in Olanda, Germania e Francia. Nel campione considerato (46 tra le principali banche europee) restano 1.250 miliardi di attivi tossici.
Proseguendo nella selva dei numeri, le stime ipotizzano che circa la metà degli attivi restanti (quasi 700 miliardi) siano da dismettere entro la fine del 2014, come indicato nei piani strategici ultimamente presentati dalle banche. La cifra è evidentemente considerevole e rappresenta un impegno non indifferente per il settore bancario europeo in quanto richiede due condizioni essenziali per il raggiungimento dell’obiettivo: a) politiche monetarie ancora accomodanti e b) mercati finanziari in condizioni tali da rendere agevole e meno oneroso possibile il processo di alienazione. Ovviamente, il percorso coinvolge l’intero settore bancario dal punto di vista tanto dei venditori quanto dei non venditori; questi ultimi si trovano comunque ad avere un elemento di competizione rilevante a fronte delle necessità derivanti, ad esempio, dal parco di obbligazioni (governative e societarie) in scadenza nello stesso periodo e che necessitano di essere rinnovate.
E’ necessario specificare le caratteristiche del fenomeno. La distribuzione dei 700 miliardi di attivi tossici da alienare entro la fine del 2014 è tutt’altro che omogenea: oltre il 40% è nella pancia delle banche inglesi, un altro terzo è a carico delle banche tedesche, un 10% ciascuno appartiene a Spagna e Svizzera mentre il restante 5% (36 miliardi) è nelle banche francesi, belghe e italiane (3 miliardi). Queste ultime detengono complessivamente 43 miliardi di attivi da dismettere (su 2.300 miliardi totali).
Rispetto agli obiettivi prefissati la fotografia della situazione attuale evidenzia come le banche dei paesi “periferici” abbiano completato il 97% dell’obiettivo di riduzione/eliminazione degli attivi (deleveraging) mentre le banche dei paesi “core” sono a meno di un terzo del percorso, rendendo ancora più rilevante la pressione che sarà esercitata nel prossimo anno e mezzo dalle banche, in particolare inglesi e tedesche. Ricordiamo che questi ammontari non considerano gli attivi assorbiti dalle finanze pubbliche e che possono anch’essi diventare oggetto di dismissione.
Si possono fare alcune considerazioni aggiuntive. Che il processo di unione bancaria sia particolarmente difficoltoso è a questo punto comprensibile ma non imputabile alle difficoltà derivanti dal rientro dei debiti pubblici bensì al retaggio di attività bancarie poco trasparenti e molto onerose. Se consideriamo l’OMT (il piano di difesa dell’euro basato sull’acquisto di titoli di Stato con tassi troppo elevati) e le critiche al rischio di condivisione delle debolezze dei bilanci pubblici tra Stati aderenti all’Unione Europea è ragionevole estendere le stesse critiche alle fragilità bancarie, dove la necessità di tenere in vita bilanci di banche piene di titoli tossici impedisce il corretto funzionamento dell’unione monetaria che a sua volta si scarica su un costo del denaro irragionevolmente elevato per le piccole-medie imprese, soprattutto dei paesi periferici, con effetti ancora più distorsivi ed iniqui. In questo senso l’Italia paga l’onere non solo per il proprio eccessivo debito pubblico ma anche per la scarsa qualità dei bilanci delle banche altrui.
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