Il mercato del lavoro assume spesso un ruolo centrale nelle politiche finalizzate a stimolare un’economia in crisi, e in questi mesi ne stiamo avendo un’ulteriore conferma. Negli Stati Uniti Obama ha scelto come capo economista Alan Krueger, esperto del campo, e si sta giocando parte delle proprie chance di rielezione con un piano di 447 miliardi di Dollari per incentivare la creazione di posti di lavoro. In Spagna, è stato chiaro fin dal principio che la riforma del mercato del lavoro (altamente duale come quello italiano) sarebbe stata fondamentale per recuperare il sentiero di crescita. E Zapatero, che pure aveva sempre evitato qualsiasi scontro con i sindacati, ha dovuto tardivamente proporre misure di liberalizzazione. In Italia, una maggior flessibilità del mercato del lavoro era tra i punti esplicitamente richiesti dalla BCE nella lettera pre-manovra, e le problematiche in questo campo vengono sottolineate ogni qualvolta le agenzie di rating giustificano un downgrade riguardante l’Italia.
La prima ragione di questa attenzione verso il mercato del lavoro, che però non approfondiremo qui, è che ogni disoccupato rappresenta, alla fine della giornata, un elettore. Un elevato tasso di disoccupazione può quindi essere letale per qualsiasi uomo di governo che cerchi la rielezione. La seconda ragione è che un mercato del lavoro che presenta dei problemi può bloccare la ripresa economica per un periodo di tempo relativamente lungo, a causa dei meccanismi di isteresi che ne caratterizzano il funzionamento.
Come sostengono gli economisti Davide Furceri e Annabelle Mourougane in un recente working paper dell’OECD, questi fenomeni di isteresi fanno si che spesso un’elevata disoccupazione ciclica si trasformi in un più alto tasso di disoccupazione strutturale. In media, nel caso di una crisi di portata rilevante (e sicuramente quella di questi anni lo è) si osserva un tasso di disoccupazione strutturale più elevato di un punto e mezzo percentuale fino a cinque anni dopo l’inizio della ripresa. Questo è vero soprattutto nei paesi con mercati del lavoro e dei beni più rigidi e in presenza di leggi a tutela dell’occupazione più restrittive (dove il tasso di disoccupazione strutturale a cinque anni di distanza dalla crisi arriva ad essere cinque punti percentuali superiore al periodo pre-crisi).
Nel caso specifico della crisi attuale, c’è poi un problema addizionale. In alcuni paesi (Stati Uniti e Spagna in primis) la crisi è stata caratterizzata dal tracollo del settore immobiliare, e molti addetti in questo campo sono rimasti pertanto senza lavoro. Questo settore è però caratterizzato da forza lavoro poco qualificata e, pertanto, difficile da ricollocare in altri settori; è così facile che molti degli ex occupati diventino disoccupati di lungo periodo.
Che fare dunque? Come sottolineato nell’ultimo Employment Outlook dell’OECD, sono tre le categorie maggiormente colpite dal rallentamento dell’economia: i giovani, i lavoratori a tempo determinato e i disoccupati di lungo periodo.
Riformare il mercato delle pensioni e il mercato del lavoro contribuirebbe sicuramente a ridurre l’impatto della crisi sui giovani e sui lavoratori a tempo determinato. Anche perché il paper di Furceri e Mourougane mostra come un elevato tasso di sostituzione (il rapporto tra ammontare delle pensioni e ultimi salari) e una rigida legislazione a tutela dei lavoratori a tempo indeterminato siano causa diretta dell’aumento di disoccupazione strutturale in seguito ad un episodio di recessione. Pensioni troppo generose disincentivano la permanenza sul mercato del lavoro e sono onerose per la parte attiva della popolazione. Una legislazione troppo protettiva verso i lavoratori a tempo indeterminato contribuisce ad aumentare il dualismo del mercato del lavoro e sfavorire l’assorbimento di nuovi lavoratori (viceversa, si osserva che una legislazione più protettiva verso i lavoratori a tempo determinato contribuisce, di fatto, a ridurre gli effetti negativi di tipo strutturale sul tasso di disoccupazione).
La questione dei disoccupati di lungo periodo è stata sicuramente acuita dalla crisi, come precedentemente detto. Tuttavia, non si tratta di un fenomeno nuovo: la crescente apertura agli scambi internazionali ha fatto si che alcune categorie di lavoratori (tipicamente i lavoratori poco qualificati dei paesi ricchi) venissero di fatto espulsi dal mercato del lavoro. In effetti, nell’Unione Europea, il tasso di disoccupazione di lungo periodo come percentuale della popolazione attiva (dati Eurostat) era uguale (4%) nel 2010 e nel 2000 (seppur alcuni paesi, quali la Spagna, abbiano registrato un aumento considerevole). Che fare dunque, per affrontare il problema?
Almeno due strade andrebbero percorse. Da un lato sostenere i redditi e il reinserimento, laddove possibile, di queste persone nella vita lavorativa. Dall’altro cercare di orientare la forza lavoro verso settori più competitivi e maggiormente qualificati. In Italia i disoccupati nel 2009 (dati OECD) erano l’8,4% della popolazione attiva, ma la percentuale scendeva al 5,6 tra coloro in possesso di un’istruzione superiore e al 5,1% tra coloro con una laurea (nonostante un tasso di partecipazione maggiore per i lavoratori più istruiti). Prevenire l’esclusione dal mercato del lavoro attraverso una formazione più competitiva costituisce quindi un ulteriore tassello per ridurre il rischio di aumentare il tasso di disoccupazione strutturale.
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